22/09/2011versione stampabilestampainvia paginainvia



Un film di Andrea Segre, che racconta l'Italia con gli occhi di una cinese e di un uomo dell'ex Jugoslavia, nella cornice di Chioggia e dell'identità dei suoi pescatori

Dal 23 settembre 2011, è arrivato nei cinema Io sono lì, film italiano che ha vinto il premio FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) all'ultima Mostra del cinema di Venezia. Shun Li (l'attrice Zhao Tao) lavora in un laboratorio tessile della periferia romana per ottenere i documenti e riuscire a far venire in Italia suo figlio di otto anni. All'improvviso viene trasferita a Chioggia per lavorare come barista in un'osteria. Incontra Bepi, pescatore di origini slave (l'attore Rade Sherbedgia). Un dialogo silenzioso tra culture diverse, nella cornice di una piccola isola della Laguna, ancora ancorata alla pesca e alla sua storia. PeaceReporter ha intervistato Andrea Segre, il regista, alla sua prima opera di fiction dopo ottime prove come documentarista.

Un passaggio alla fiction, una contaminazione con il documentario. La motivazione del premio Fedic parla di 'felice intreccio'. Una frontiera labile, che qualcuno vorrebbe ben chiusa. Da cosa nasce questa scelta?
Forse perché mi piace questo confine, come tutti gli altri confini in generale. Che in realtà mi piacciono perché non li vorrei più. Mi piace frequentarli perché vorrei che non ci fossero. Il confine tra fiction e documentario è uguale: mi piace frequentarlo perché credo che non esista. Quando gli spettatori vedono le prime scene di Shun Li, la protagonista, mi chiedono come ho fatto a girare nelle case dei cinesi. E' stato uno dei pochi casi nei quali ho ricostruito io l'ambiente, mentre altre volte ho girato dentro le case dei migranti e mi chiedevano se l'avessi ricostruita io. E' bellissimo vivere la dimensione del cinema che permette di giocare con il reale e l'impressione del reale, dove non c'è nulla di vero, ma tutto potrebbe essere verificabile. Ed è questo quel gioco di rappresentazione che mi piace frequentare e attraverso il quale mi piace tentare di condurre gli spettatori a incrociare dei mondi che altrimenti rimangono fuori dal loro confine. Questo è quello che cerco di fare con il mio cinema.

Anche perché, varcare quel confine, consente forse di avvicinare ai 'temi' del documentario un pubblico differente e molto più vasto.
L'aver fatto il film con gli attori apre a un pubblico che per il documentario rimane ancora esterno. Per quanto siamo arrivati con i documentari, e non parlo solo di me ma dell'ultima generazione di autori in Italia, oltre ogni aspettativa di pubblico. L'obiettivo, adesso, è quello di coinvolgere in questa contaminazione di sguardi e di mondi, una fetta di pubblico ancora più ampia. Anche in un Paese soffocato da spettacoli di altro tipo. Abbiamo però alleati molto convinti, con i quali stiamo lavorando a questa che non è soltanto un'impresa culturale ma anche una sfida.

Sfida. Come quella che un attore affermato come Marco Paolini - che nel film interpreta il personaggio di Coppe, un pescatore di Chioggia - ha raccolto. Venendo meno a quel cliché del cinema 'giovane' che non trova spazio e sostegno.E' stato difficile convincere Paolini a credere in questo progetto?
E' stato difficile nella misura in cui lo sono tutte le sfide affascinanti. Per il resto non è stato difficile, perché Marco è una persona attenta e intelligente ai racconti che cerca di veicolare e, come in questo caso, produce. Prima di arrivare a questo progetto ci sono stati momenti di confronto e collaborazione. La persona chiave di questo percorso è di sicuro Francesco Bonsembiante, il produttore del film e socio di Marco, che ha sostenuto il progetto credendoci da subito e coinvolgendo poi anche Paolini. Quest'ultimo si è messo molto in discussione, andando con i pescatori e frequentando le osterie. Entrando nei luoghi, come piace a me. Il luogo, Chioggia, non è una location qualsiasi, ma è quasi un personaggio a sua volta. Bisognava farsi contaminare da questo luogo e Marco lo ha fatto. Come lo hanno fatto gli altri importanti attori del film e tutti loro hanno contribuito al mio lavoro.

Il personaggio Chioggia. Come lo presenteresti al pubblico?
L'idea era quella di prendere un piccolo villaggio, quasi sconosciuto, eclissato dalla notorietà di Venezia, e farne un villaggio globale. Legato, per altro, alla mia storia personale, essendo il luogo di nascita di mia madre. Farne un centro era una sfida narrativa di questo film, essendo Chioggia uno dei pochi luoghi dell'Italia settentrionale dove è ancora forte il rapporto tra il territorio e identità sociale. Le persone che vivono a Chioggia sono ancora in gran parte pescatori e i loro figli fanno i pescatori. Situazione sempre più rara in Italia e che fa di Chioggia un posto con un'identità molto forte. Fare un film che riguarda l'incrocio tra le identità, lo straniamento, la paura e il coraggio di conoscere l'altro, in un luogo dove esiste una forte identità, era una bella scommessa. Oltre questo, la parte meridionale della Laguna di Venezia è un luogo di grandissimo fascino, che permette di incontrare tantissime facce in un luogo piccolo, fatto di terra e acqua, che entra ed esce ogni sei ore.

La pesca, a sua volta, è parte fondamentale del film per il suo legame con il territorio e la società. Pescatori a Chioggia è il titolo di un documentario che hai girato dieci anni fa. Come hai visto cambiare questo mondo in questi anni?
Io ho sempre sentito i pescatori lamentarsi, ma in realtà non mi è mai sembrato un mondo in crisi.
Il mercato del pesce di Chioggia resta uno dei più importanti e dei più floridi economicamente. Io continuo a vedere un'identità forte, anche se cambiano i mezzi tecnici rispetto al passato. Comunque, con il satellite o no, un pescatore si alza nel cuore della notte per andare a pescare, con qualsiasi temperatura e condizione climatica. E continua a puzzare di pesce tutto il giorno. Dieci anni dopo la cosa che è cambiata di più sono i mezzi, come il cellulare per le contrattazioni. Avvisano il mercato prima di arrivare e questo ha tolto un po' di folklore alle trattative. Per il resto, l'anima, resta uguale.

La protagonista è una donna cinese. Raccontare per immagini, spesso, comporta un conflitto con gli stereotipi. Dall'operaia alla grande potenza economica che salva l'Italia dal fallimento economico, quanto è cambiata l'immagine cinese in Italia?
E' una delle evoluzioni globali, delle rivoluzioni storiche più interessanti. Ricordo ancora cos'era la Cina in Italia quando ho scritto il primo soggetto del film, nel 2005, dopo l'incontro con la vera Shun Li in un'osteria. All'epoca era ancora un luogo piuttosto sconosciuto, legato a un'immagine di sottosviluppo e povertà. Sei anni dopo la Cina è una grande potenza economica globale, che deciderà le sorti di molte persone, non soltanto cinesi,. E tutto questo è avvenuto solo in sei anni, una cosa pazzesca. Difficile da focalizzare. Io ho provato a metterla dentro il film, il cui scopo non è quello di spiegare la Cina agli italiani, ma suggerire di esplorare quella comunità superando gli stereotipi. L'incomunicabilità, ad esempio, che non esiste anche grazie a una seconda generazione che è in tanti aspetti della nostra vita. Un invito a conoscere, a percorrere strade d'incontro che diventa ancora più importante in un mondo dove le cose cambiano in senso globale molto in fretta. Ho provato a raccontare questo movimento, attraverso il percorso umano di Shun Li, che parte dalla periferia romana, passando per un bar, fino a un'enorme centro commerciale nel padovano che rifornisce mezzo mondo. A margine della storia, questo è stato il mio modo di raccontare questa evoluzione.

Christian Elia

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