06/05/2009versione stampabilestampainvia paginainvia



Eyal Weizman, architetto israeliano, spiega come il controllo dello spazio in Palestina sia una forma di controllo politico

scritto per noi da
Linda Chiaramonte

La funzione principale dell'architettura e dell'urbanistica è costruire opere civili e infrastrutture per migliorare la vita della gente, ma quando si tratta dei Territori occupati in Palestina anche questo può diventare uno strumento per esercitare il potere politico e il controllo sulle popolazioni. L'organizzazione degli spazi, perfino quello aereo, è un segno tangibile di una strategia di controllo. Gli insediamenti, i campi profughi, le strade, per non parlare del muro di separazione, sono il risultato di un disegno politico.

eyal weizmanSu questa materia, ovvero l'occupazione civile che equivale negli effetti ad un'operazione militare vera e propria, ha concentrato le sue ricerche il giovane architetto israeliano Eyal Weizman, direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College di Londra, che vive e lavora fra la capitale inglese e Tel Aviv. Weizman ha lavorato con diverse organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani in Israele e Palestina. Da pochi giorni é nelle librerie il suo saggio Architettura dell'occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele edito da Bruno Mondadori. Weizman, nelle scorse settimane, è stato ospite a Bologna del Festival Urbania e a Ferrara di Città e Territorio, dove ha tenuto una conferenza. Al pubblico ha spiegato come a iniziare le ricerche sia stata la richiesta di un'associazione per i diritti umani di un rapporto sulle violazioni commesse in architettura, una mappa dettagliata per esaminare la realtà edificata degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Un'indagine sulla forma per leggere la politica. ''Le forme di colonizzazione contemporanee'', ha continuato Weizman, ''non sono più organizzate da un'unica entità, ad esempio il governo, ma da un sistema di occupazione. L'urbanizzazione, creata così, è emersa per moltiplicazione di situazioni che appaiono e spariscono rapidamente. È una forma di colonizzazione elastica, in costante cambiamento, instabile. Il controllo politico sui palestinesi cambia di continuo, in un'incessante trasformazione del loro habitat. Nonostante l'elasticità, non per questo l'occupazione è meno violenta, al contrario è un sistema di controllo costante dello spazio e in costante trasformazione''. Weizman ha spiegato che ''la costruzione degli insediamenti è temporanea, come accade per ogni occupazione. È da 42 anni che c'è un'occupazione permanentemente temporanea. Un'occupazione postmoderna non progettata in modo univoco, ma con l'interazione di vari attori. Un'occupazione elastica e più duratura''. Ha raccontato di come alcuni attivisti dei diritti umani ''nel tentativo di moderare e collaborare al disegno dell'occupazione per il male minore sono diventati partecipi involontari di questo sistema di potere legittimando e rendendo l'occupazione ancor più duratura''. ''Lo spazio palestinese'', ha aggiunto, ''viene violentato, i militari israeliani per esercitare il controllo sui campi profughi ridisegnano lo spazio distruggendo in modo creativo, di casa in casa. Sfondando i muri come vermi nelle mele. Studiano architettura per applicare le teorie nelle fasi di distruzione e ricostruzione. La tecnologia permette di sparare e vedere attraverso i muri che ora non rappresentano più delle barriere, ma si smaterializzano e diventano entità elastiche''.
Al termine del suo intervento l'abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande.

Cosa intende per architettura di occupazione?

Quando si fa un'analisi dei diritti umani in architettura, ci sono due potenziali coinvolgimenti nella violazione della legge internazionale da affrontare: il primo è il reale effetto della violazione della convenzione di Ginevra del 1949 con la costruzione tout court sulla terra occupata, già di per sé una violazione del paesaggio. La convenzione infatti non permette ai paesi di trasferire la popolazione in un'area già occupata. La prima vera violazione quindi è costruire nei territori occupati, ma ciò che trovo interessante è come l'atto di costruire in sé possa essere collegato all'ordine del crimine cioè diventare parte del meccanismo della progettazione architettonica, un crimine disegnato a tavolino. Il modo stesso in cui si traccia uno schema degli insediamenti, come si disegnano e si costruiscono, la loro collocazione, non è fatto solo allo scopo di essere utili alla popolazione, ma per procurare effetti negativi sulla vita e sui mezzi di sussistenza del popolo palestinese. Spesso abbiamo visto insediamenti edificati per generare un danno materiale, costruiti in modo tale da schiacciarsi fra le città palestinesi, per creare un cuneo, un muro fra loro, un muro vivente di persone che si frappone rendendo la vita dei palestinesi impossibile dentro a quelle aree.

Come le case, le strade, i campi profughi e la Striscia di Gaza sono la manifestazione del potere politico israeliano?

Nei campi profughi, disegnati dall'Onu e non da Israele, ci sono alcune questioni legate all'architettura che riguardano la politica. I profughi, ad esempio, sono molto attenti a fare una distinzione fra un campo e una città. Un campo è per sua natura un'entità temporanea e la temporaneità implica il desiderio, la pretesa, di fare ritorno nella terra da cui si è stati espulsi. Israele ovviamente ha agito contro questo concetto di temporaneità, la volontà è che i campi siano considerati, sentiti e appaiano come città, per questo spesso li ha in parte distrutti e al loro posto ha costruito aree urbane permanenti intorno, nel tentativo di annullare la richiesta di ritorno. Se si costruiscono città e i rifugiati vengono inseriti in contesti urbani, diventando residenti, si crea un diverso tipo di soggetto politico meno pericoloso per Israele. Questo è un tentativo di disfare l'aspirazione dei palestinesi al ritorno servendosi dell'architettura. Così spesso sui campi profughi si esercita una violenza che risponde a due istanze: distruzione e costruzione. Le azioni sono continue, creano interferenze nel modo in cui vive la gente e questo è il modo migliore per evitare rivendicazioni politiche da parte dei palestinesi.

Lei è un personaggio scomodo, contro. Critica duramente la politica del governo di Israele. Cosa pensa il governo del suo lavoro?

Penso di essere un piccolo problema per il governo israeliano, ma l'associazione israeliana di architettura non ha gradito il mio lavoro ed ha distrutto i cataloghi della mostra (in cui nel 2002 rappresentava Israele al congresso mondiale degli architetti a Berlino, ndr). Il governo non ha bisogno di questa forma di critica. La critica va intesa non solo come l'espressione di cosa non va, ma come un'azione nello spazio che ha effetto su esso, capace di creare una mobilitazione che faccia pressione sul governo allo scopo di far fare loro marcia indietro e abbandonare i progetti coloniali. Questo ha piccoli effetti, ma l'intenzione è di concepire la critica non come qualcosa di completamente avulso dalla realtà, ma come una speciale pratica critica nello spazio.

È vero che per lei la progettazione è la forma migliore per raccontare la tragedia politica del popolo palestinese

Sì, perché molto del conflitto è iscritto nello spazio, sto cercando di leggere questo. Tutti noi abbiamo molta familiarità con queste considerazioni storiche, politiche, religiose sulla Palestina, ma leggerle in modo speciale può fornire un'altra dimensione per capire. È come l'archeologia, in cui dalla scoperta di un vecchio edificio si può leggere la storia, lo stile di vita, la politica, il commercio, l'economia. È quello che sto cercando di fare: leggere dalla realtà costruita i processi storici che si sono condensati in questa forma.

Esiste una forma di architettura di pace?

No, perché penso che il conflitto sia una caratteristica permanente e questo è un conflitto senza fine, non vedo un orizzonte soddisfacente. Il conflitto in sé include una resistenza all'oppressione. Talvolta lo spazio può far nascere uno stile di vita capace di emergere in un luogo senza speranza, capace di sviluppare piccole possibilità per aprire un processo di trasformazioni. La storia è un processo di lotta di coscienza e resistenza delle coscienze, pensare all'idea della Palestina come soluzione non è forse il modo giusto di parlarne. Anche se ci fosse uno Stato avremmo comunque conflitti interni, solo che si articolerebbero in maniera differente, in ambito civile.

Crede che le scelte dei governi di destinare alcune aree ai margini delle città alle minoranze etniche o religiose sia una maniera per controllarle meglio?

Certamente. Esiste un nesso nel sistema di governo che opera attraverso il controllo dello stile di vita e il modo di definirlo attraverso diversi tipi di architetture. I governi spesso credono che la popolazione che vive in case ordinate e standardizzate, in grandi spazi, produca soggetti più passivi, ma questo non è sempre vero. La vita è sempre in eccesso di forma, a volte può emergere in questi luoghi malgrado i tentativi e gli sforzi dell'architettura. Anche quando il governo israeliano ha costruito case per i palestinesi allo scopo di una pacificazione, è capitato che la resistenza più attiva sia uscita proprio da quelle case. Questo non si può programmare. L'architettura israeliana di occupazione non è perfetta, io descrivo i suoi tentativi, ma è futile perché stanno proprio perdendo la guerra.

Cosa pensa del muro?

La più solida manifestazione di potere è il muro che ha privato i palestinesi di campi e terreni. La struttura stessa è stata definita come un serpente che sinuosamente segue un percorso fatto di svolte, un diagramma per leggere le forze politiche in campo.
Penso che i muri non siano efficaci, ma siano esercizi delle nevrosi di chi li costruisce. In Palestina è un esercizio gigantesco di psicologia pubblica. Il muro in sé è pieno di varchi, non è del tutto ermetico ed invalicabile, se non ci fossero non sarei in grado di andare continuamente dentro e fuori da Beit Sahour, e come posso farlo io così molte altre persone. Serve a dimostrare agli israeliani che il governo fa qualcosa per dar loro una rassicurazione psicologica e questo è efficace. L'architettura nel nostro paese ha forti responsabilità, ma ci sono colleghi che la pensano come me. C'è abbastanza dissenso ed una sinistra israeliana energica che fa opposizione, anche se, sfortunatamente per noi, non ha molti effetti.

Ora Eyal Weizman, insieme al collega italiano Alessandro Petti e alla palestinese Sandi Hilal, lavora nel suo studio di Beit Sahour, città palestinese a sud di Betlemme, al progetto di decolonizzazione. Ovvero ''sulla prospettiva di come i palestinesi potranno vivere nelle case israeliane del nemico. Su come usare questo potenziale e prefigurare l'archeologia israeliana dei territori e la trasformazione delle colonie lasciate dagli israeliani per un nuovo uso degli spazi per i palestinesi''. A questo proposito ricorda che gli israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza nel 2005 hanno lasciato 21 insediamenti liberi. Come usarli, si chiede. Ed è nella risposta che Weizman esprime il concetto più forte ''la questione si pone in chiave politica, diventa un problema di immagine: se i palestinesi occupano le case israeliane si attua la reversibilità del progetto sionista e questa possibilità rappresenta una minaccia. Se è stato possibile che gli israeliani occupassero le case dei palestinesi nel 1948 non vale il contrario''.