di Marco Pavan
Sono entrato a Sarajevo dalla strada che arriva da nord, da Zenica, e si immette sul viale a sei corsie Zmaja od Bosne, fiancheggiato dalle architetture comuniste dei palazzoni in cemento costruiti durante gli anni Sessanta e Settanta. Giusto un po' di coda fino all'immissione, per poi percorrere l'arteria che è diventata quasi un simbolo di questa città, dove Oriente e Occidente si incontrano; una specie di Istanbul dei Balcani.
Poco prima di entrare nel centro, si innalzano le torri di Sarajevo e il palazzo del Parlamento; grattacieli in vetro e acciaio. Completamente ristrutturati, sembrano altri palazzi rispetto a quelli semidistrutti che compaiono nelle foto della guerra civile. L'architettura racconta la storia. Percorrere la città da est a ovest è un po' come andare indietro nel tempo. Poco più avanti, infatti, i palazzi in stile austro-ungarico testimoniano la presenza dell'Impero in Bosnia. Infine, ai piedi del pendio che chiude la valle lunga e stretta che contiene Sarajevo, le moschee e i bazar turchi del Cinquecento. È qui, nella pedonale e antica Bašcaršija, che pulsa il cuore ottomano della città. Circa l'85 percento degli abitanti di Sarajevo, oggi, è musulmano. Ma, chiedendolo direttamente, Samir e Rizvan rispondono con un sorriso un po' imbarazzato, che poi muta in una smorfia. Come a dire: "Stando al mio nome dovrei dire di sì". Ma non frequentano di certo la moschea o si attengono ai precetti islamici. Il restante 15 percento è principalmente cattolico, di origine croata. Le divisioni esistono, nonostante a parole spesso vengano negate. Chi ha frequentato una scuola cattolica ha principalmente amici croati e magari fa volontariato con la parrocchia. Ancor più netta, e anche visibile, è la separazione dei Serbi, arroccati a Sarajevo Est, un quartiere formalmente nel territorio della Repubblica Srpska che si è appropriato dello status di città, nonostante si trattasse sostanzialmente di un insieme di vie e strade periferiche. Ma qui l'improvviso uso del cirillico nelle indicazioni stradali rende chiaro il messaggio, anche se manca un vero confine.
Nonostante tutto, Sarajevo, resta la città dove le cattedrali cattolica e ortodossa e la moschea principale sono a poche centinaia di metri di distanza. I templi delle tre religioni convivono uno accanto all'altro, ma quello che pare mancare è un collegamento tra di essi. Andando a Sarajevo, mi ero ripromesso di capire meglio come i giovani ventenni, coloro che da piccoli hanno assistito alla tragedia della guerra e che presto decideranno del futuro del loro Paese, vivessero le tensioni che lo rendono instabile ancora oggi dopo quindici anni. Mersiha, 28 anni, collabora volontariamente con Education Builds Bosnia Herzegovina, un'associazione nata per aiutare gli orfani di guerra, fondata dal generale serbo Jovan Divjak. Secondo lei i giovani devono capire che non vi è alcuna ragione per chiudersi ciascuno nel proprio gruppo. E soprattutto che hanno tutti le stesse necessità e gli stessi problemi, a prescindere dal fatto che siano Bosniaci, Serbi o Croati. E Mersiha non è l'unica a pensarla in questo modo. Jan Kulenovic, il direttore di OIA, associazione la cui principale attività è quella di informare i giovani sulle opportunità e attività a loro dedicate in Bosnia, racconta che è sufficiente far stare assieme i ragazzi perché i pregiudizi cadano e questioni di interesse comune prendano il sopravvento. OIA si occupa anche di raccogliere alcuni dati relativi alla popolazione tra i 15 e 30 anni: il tasso di disoccupazione di questa fascia di età sfiora il 60 percento. Trovare un lavoro è un lusso, spiega Kemal, che ha un amico laureato in matematica e teologia che ha dovuto accontentarsi di fare il receptionist di un ostello.
Un altro importante dato è il fatto che, sempre secondo OIA, quasi il 70 percento dei giovani bosniaci vorrebbe lasciare il paese. Hazim, 22 anni, studia giornalismo all'università e vive in un appartamento in condivisione con altri studenti. Una sottile treccia e un cappello con il frontino calcato in testa, racconta come vada avanti per inerzia, giusto per finire gli studi e sperando di riuscire a lasciare la Bosnia al più presto. "Questo Paese non ha futuro", continua a ripetere. Sogna la Germania, o magari la Svizzera. Per fortuna alle superiori ha studiato lingue e quindi gli andrebbe bene anche un paese come la Francia. Sembra che Hazim non abbia voglia di lottare per il suo Paese, dove avere un nome musulmano può essere un problema per uscire con una ragazza, conosciuta per caso una sera, di origini croate e cresciuta nella tua stessa città.
Seduta davanti a una tazzina di caffè, sigaretta in bocca, Ivona, anche lei ventiduenne, racconta una storia diversa. Mi spiega come fino a qualche anno fa andava nel centro città, dove studia all'Accademia delle Belle Arti, e non incontrava alcun serbo. Ora, invece, dice quasi con una punta di rammarico ma in realtà felice di questo cambiamento, non può più sedersi in un caffè sicura di non vedere alcuna persona che viene come lei da Sarajevo Est. Ivona ha perso il padre durante la guerra, mentre combatteva contro l'esercito bosniaco, e ha poi ricevuto una borsa di studio da Education Builds Bosnia Herzegovina. Ora anche lei collabora come volontaria, così può concretamente fare qualcosa per il suo Paese. "Non mi ritengo né religiosa, né tradizionalista, ma amo la mia terra, con tutti i suoi problemi e tutte le sue mancanze". Contrariamente a molti altri Ivona non vuole lasciare la Bosnia, dove sa di avere le proprie radici. Come è abitudine qui, dove il tempo sembra sia dilatato, ci vuole un'altra ora per vuotare la tazzina di caffè che sta bevendo, senza fretta. "Perché mai dovrei odiare i bosniaci per la morte di mio padre? La colpa non è loro", lentamente anche le ferite più profonde riescono a rimarginarsi.
After Jugo
Introduzione al progetto
After Jugo è un documentario multimediale che racconta la vita a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina. È un progetto che parla di una generazione 'di mezzo': i ragazzi nati negli anni Ottanta ricordano la guerra molto bene ma sono troppo giovani per averne preso parte attivamente. Questi stessi ragazzi, in pochi anni, dovranno contribuire a costruire il futuro del loro paese.
Dopo la fine della guerra, la maggior parte delle persone ha considerato il conflitto in atto nei Balcani come totalmente risolto, ma il disfacimento di una nazione porta cambiamenti e tensioni che resistono per anni. E troppo spesso i media e i cittadini degli stati vicini dimenticano cos'è accaduto e poco sanno di come cambia la società e come gli individui vivono in quei paesi.
In Bosnia-Erzegovina ci sono tuttora forti tensioni etniche e grossi problemi economici. Il tasso di disoccupazione, per i giovani tra i 15 e 30 anni, è quasi al 60 percento e coloro che vorrebbero andarsene e vivere all'estero sono circa il 70 percento. La penisola balcanica è una terra affascinante, con forti contrasti, di cui i media parlano poco, soprattutto considerata la vicinanza con l'Europa Occidentale.
After Jugo è nato come progetto finale per il Master in Photojournalism and Documentery Photography, che l'autore ha frequentato nel corso del 2009.
Nell'Aprile 2010, il reportage ha vinto il primo premio ex-aequo Eretici Digitali, nell'ambito dell'International Journalism Festival di Perugia.