15/03/2010versione stampabilestampainvia paginainvia



Nei loro raid notturni in Afghanistan, le forze speciali Usa uccidono a sangue freddo e catturano civili innocenti per poi torturarli nei 'buchi neri', le prigioni clandestine nelle basi militari sul fronte

Non sono solo i bombardamenti e le stragi di civili a suscitare l'avversione della popolazione nei confronti delle truppe d'occupazione straniere, spingendo sempre più afgani ad appoggiare la resistenza armata talebana. A questo risultato contribuisce sopratutto la pratica, meno nota ma sempre più diffusa, dei raid notturni delle forze speciali americane, che uccidono a sangue freddo e catturano civili innocenti per poi torturarli nei 'buchi neri', le prigioni clandestine nelle basi militari sul fronte, lontane dai riflettori dei media che hanno costretto il Pentagono a interrompere tali pratiche nella prigione centrale di Bagram, a Kabul.

19 novembre 2009, ore 3:15 di mattina. Un'esplosione risuona in sobborgo di Ghazni. Le forze speciali americane hanno fatto saltare il cancello della casa di famiglia di Mujidullah Qarar, portavoce del ministero dell'Agricoltura del governo Karzai. Lui non c'è: è a Kabul. Ma ci sono i suoi parenti, che si svegliano di soprassalto. Uno di loro, Hamidullah, venditore di carote al bazar cittadino, si alza e corre fuori a vedere cosa succede. Appena varcata la soglia, alcuni Rambo barbuti e tatuati gli sparano addosso. Cade a terra e strisciando rientra in casa, lasciando una scia di sangue dietro di se. Azim, suo cugino, lo raggiunge per soccorrerlo, ma una raffica di mitra falcia anche lui.

I due uomini feriti, a terra, muoiono urlando di dolore, mentre i loro figli rimangono immobilizzati dal terrore sotto le coperte. I soldati si dirigono in altre stanze, dove iniziano a ribaltare mobili e forzare cassapanche e alla fine trovano l'uomo che stanno cercando: Habib-ur-Rahman, un giovane esperto informatico che lavora per il governo convertendo in lingua pashto le applicazioni di Windows. Un infiltrato di Al-Qaeda secondo gli americani. Rahman e suo fratello, che dormiva nella stessa stanza, vengono legati, portati fuori e caricati su un elicottero. Rinchiusi in una cella, all'interno di una piccola base militare Usa, vengono interrogati e picchiati. Il fratello viene rilasciato dopo un paio di giorni. Rahman rimane lì.

Mujidullah Qarar, informato dell'accaduto, attiva tutte le sue conoscenze per ottenere notizie di suo cugino Rahman e giustizia per l'uccisione degli altri due cugini. Chiama comandanti di polizia, amici parlamentari, il governatore provinciale e chiede aiuto perfino al suo capo, il ministro. Ma non riesce a sapere nulla. Viene però aperta un'inchiesta governativa sulla morte di Hamidullah e Azim, che conferma la dinamica dei fatti raccontata dai parenti. A quel punto il comando militare Usa rilascia un comunicato, in cui afferma che i due uomini uccisi dalle forze speciali "erano militanti nemici che avevano dimostrato intenti ostili".

"Tutti ci conoscono e sanno che la nostra famiglia lavora per il governo", ha dichiarato Qarar alla stampa. "Mio cugino Rahman non usciva mai dalla città perché sapeva che i talebani lo avrebbero preso e fatto fuori. Ma a parte questo, che bisogno c'era di uccidere due membri della mia famiglia? Sapevano benissimo dove lavorava e potevano semplicemente andarlo ad arrestare. Sono sempre andato in televisione a dire alla nostra gente di sostenere il governo e gli stranieri: mi sbagliavo! Perché mai dovremmo farlo? Mi licenzino pure, ma la verità è questa!".
Se andrà bene, Rahman verrà torturato per qualche settimana e poi rilasciato senza spiegazioni, come accade alla maggior parte delle prede catturate delle forze speciali Usa e detenute nei 'buchi neri'. Le loro storie sono state raccolte dalla Commissione indipendente afgana per i diritti umani (Aihrc).

C'è quella dei contadini del villaggio di Motai, nella provincia di Khost: sei uccisi in un raid notturno e nove fatti prigionieri. Due di loro ritrovati morti pochi giorni dopo, abbandonati vicino alla locale base Usa chiusi in sacchi di plastica con ancora le manette di plastica ai polsi; quattro rilasciati e gli altri spariti.
O la storia di Nuragha Sherkhan, poliziotto di Gardez catturato dalle forze speciali perché sospettato di essere filo-talebano, portato in una base dove lo hanno bendato, appeso al soffitto, picchiato, attaccato con i cani e costretto a bere acqua fino allo svenimento. E alla fine rilasciato con una lettera di scuse.

Niente scuse invece per Haji Ehsanullah, prelevato di notte dalle forze speciali Usa nella sua casa di Zabul, interrogato per tre giorni in una base di Khost e poi rilasciato in stato confusionale, con un trauma cranico da percosse e morsi di cane sulle gambe.
"I contadini dei villaggi sanno sempre qualcosa, ma non ci dicono mai nulla", dice un soldato delle forze speciali Usa al giornalista afgano Anand Gopal. "Per questo ogni tanto devi buttare giù una porta, usare la forza e gettare la rete: se ti capita di prendere quello giusto ti fa la differenza! A volta Per Rodrigo Arias, soldato semplice, è solo questione di sopravvivenza: "Io voglio tornare a casa tutto intero, e se questo significa che bisogna fare rastrellamenti, facciamoli!".

Enrico Piovesana

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