Da cecchino in Iraq ad attivista contro la guerra. La storia di Eleonai 'Eli' Israel
Due mesi fa, ho preso una decisione che
ha cambiato la mia vita per sempre. Come soldato, un agente Jbv
(Joint Visitors Bureau n.d.r.) del servizio di sicurezza, e come
cecchino dell'esercito che ha trascorso un periodo di un anno in Iraq
(prendendo parte ad oltre 250 missioni di combattimento), mi sono
rifiutato di continuare a far parte dell'occupazione. Non ho
rimpianti. Questa è la mia storia. In questo momento, ora che
scrivo, sono parcheggiato qui in Kuwait, in “stand by”,
attendendo di tornare negli Stati Uniti, spero un giorno di questa
settimana. Dopo essere uscito dal carcere militare la scorsa
settimana, è ora previsto il mio congedo dalle forze armate
entro questo mese. Sono in attesa di potermi unire ai movimenti che
si oppongono al conflitto in Iraq, come ad esempio
Courage to
resist e
Iraqi Veterans Against the War
Cosa è stato a condurre qui la
mia vita?
L'arruolamento. La prima volta
sono entrato nel Corpo dei Marines degli Stati Uniti nella primavera
del 1999, nel mese del mio diciottesimo compleanno. Sono cresciuto sotto la custodia
dello
stato del Kentucky, e avendo soltanto sporadici contatti con i miei
genitori naturali, dall'età di tredici anni. Non avevo nessun
sostegno di tipo familiare, e sono presto finito sulla strada, a fare
ciò che fanno tutti i ragazzi di strada.
Ancor prima di aver compiuto 16 anni
avevo conosciuto le droghe pesanti. Ho smesso di andare a scuola a
metà del nono livello ed ero esperto soltanto di astuzie da
strada, sentivo in me una incontrollabile spinta all' ambizione e
avevo modi da duro.
Quando entrai nella stazione di
reclutamento ho appreso che per poter entrare a far parte del corpo
dei Marines, avrei dovuto essere in possesso di un diploma di high
school oppure di un Ged (General Educational Development, un diploma
equivalente a quello che si può ottenere al termine della high
school, e che è previsto per coloro che da adulti vorrebbero
recuperare e ottenere un titolo di studio equipollente n.d.r.), a
meno che non avessi certi documenti di un college. Quando ho detto
loro che avevo sedici anni e che avevo frequentato la scuola soltanto
fino all'ottavo livello, mi hanno liquidato in fretta, pensando di
non rivedermi. Si sbagliavano.
Non soltanto ho ottenuto il mio Ged, ma
ho anche completato un semestre presso il college locale. Un anno e
mezzo dopo, quando ho compiuto diciotto anni nel marzo del 1999, sono
tornato in quella stessa stazione, ho parlato con lo stesso addetto
al reclutamento, gli ho mostrato il mio Ged e i documenti del
college, e ho provato per la prima volta una profonda sensazione di
orgoglio.
Tredici settimane dopo il mio arrivo a
Parris Island, ero cambiato per sempre. Mi sono laureato a capo di un
plotone, in seguito ad una promozione per merito, ed ero pronto ad
iniziare la mia fulgida carriera nel corpo dei Marines. Poi, arrivò l'11 settembre
2001.
Di nuovo nell'esercito, per la mia
nazione. Come molti altri, dopo l'11 settembre volevo rimettermi
al servizio della patria. Sentivo di poter dare alla mia nazione
qualcosa in più, dopo gli anni di addestramento. Credevo
fermamente che il mio presidente e i miei superiori mi stessero
dicendo la verità. Avevo inoltre fiducia nella mia integrità.
Sapevo che non avrei mai fatto volontariamente nulla che fosse
immorale o sbagliato. Sono tornato nelle forze armate nel
2004, stavolta nell'Esercito della Guardia Nazionale. All'epoca
pensavo che coloro che si mettevano al servizio della “Guerra
globale al terrorismo” lo scegliessero perché credevano in
ciò che stavano facendo, e non perché obbligati da un
contratto oppure costretti a restare per via della politica
statunitense dello stop-loss (nel 2004 l’amministrazione americana
decise di mantenere in servizio le truppe coinvolte nella “lotta
globale al terrorismo” prolungando il periodo di permanenza dei
soldati contro la loro volontà, impedendone di fatto il
ritorno a casa al termine del servizio volontario n.d.r.). Dopo aver
visto la situazione sul campo, sono certo che mi sbagliavo. Nel 2006,
mi sono imbarcato per l’Iraq.
In Iraq avevo il compito di agente di
sicurezza presso il Jbv (Joint Visitors Bureau), ufficio che si
occupava di garantire il servizio di sicurezza ai “generali a tre
stelle e superiori e ai loro equivalenti civili”, vale a dire anche
il Vicepresidente, il Segretario della Difesa, il capo del Joint
Chiefs of Staff (che racchiude tutte le maggiori cariche a capo dei
rami in cui si snodano le forze armate statunitensi n.d.r.), gli uomini
con carica equivalente per ciascuno dei “nostri alleati”, e
altri. Mi sono addestrato a fare il mio lavoro di membro di questa
“unità speciale”, prima di essere impiegato, e ho
trascorso la maggior parte dei miei viaggi in compagnia delle persone
più potenti connesse alla “guerra globale al terrorismo”.
Anche come agente Jbv, il mio compito principale restava la fanteria.
Nei giorni in cui non erano previste missioni di sicurezza, potevamo
essere chiamati per missioni “search and cordon” (missione di
ricerca dei miliziani all’interno del cordone di sicurezza della
città di Baghdad senza preavviso, in italiano “isola e
ricerca” n.d.r.)e altri compiti di fanteria. Perciò, anche
se lavoravo per il Jbv, ero anche nell’elenco di un plotone di
cecchini impiegati in svariate missioni “fuori dalla zona di
sicurezza”, come ad esempio lo sniper overwatch
(letteralmente il pattugliamento dei cecchini n.d.r.)o le incursioni
nelle case. Mi convincevo che le mie azioni trovassero una
giustificazione nella “legittima difesa”. Ma comunque, sono
arrivato a comprendere quanto sbagliata fosse la mia percezione. Ero
in una nazione nella quale non avevo nessun diritto di stare,
violando l’esistenza delle persone, e facendolo senza alcuna
attenzione a mantenere gli stessi livelli di dignità e lo
stesso rispetto che noi americani portiamo alle nostre case e alle
nostre vite.
Distruggendo vite. Ho tolto e/o
distrutto la vita di persone che stavano cercando soltanto di
proteggere la propria famiglia, affinché non diventasse il
“danno collaterale” del giorno. I giovani iracheni stanno
unendosi a gruppi come Al Quaeda per gli stessi motivi che spingono i
ragazzi di strada negli Usa a unirsi a bande come i
Cribs o i
Bloods. Si tratta di proteggere se stessi, di un senso di
dignità, e di resistere.
Al ragazzo cui abbiamo
“accidentalmente” ucciso il padre ed un cugino, con madre e
fratelli che piangono ogni volta che un carrarmato attraversa il
quartiere, non interessa sapere chi sia Osama Bin Laden. I
“miliziani” che abbiamo attaccato erano solitamente molto simili
ad un gruppo di controllo armato del quartiere che non riconosceva il
governo. Nemmeno noi credevamo al governo, ma lo abbiamo ugualmente
messo al potere! I nostri sacrifici, per quanto tragici
( e lo sono, tragici), sono minimi, se paragonati alla carneficina
che è stata perpetrata contro la gente dell’Iraq. Il vero
“successo” in Iraq non è una questione di “calo” del
numero delle vittime nelle forze della coalizione. Il successo
sarebbe la fine della catastrofe che abbiamo inflitto ad un’intera
società, e il ripristino della sua dignità e sovranità.
Gli iracheni continuano a morire con un
tasso dieci-venti volte superiore a quello delle forze della
coalizione. Nella sola Baghdad, e dopo cinque anni e 950 miliardi di
dollari spesi, la popolazione soffre per la mancanza di acqua ed
energia, che può protrarsi anche per settimane. Il giorno in
cui ho visto me stesso riflesso nello sguardo carico di odio di un
giovane ragazzo iracheno che stava di fronte a me, è stato il
giorno in cui ho capito che non avrei più potuto continuare a
giustificare il mio prendere parte all’occupazione.
Provo invidia per quel soldato che è
stato in grado di intuire l’ingiustizia di questa guerra da subito,
e che ha il coraggio e la convinzione di opporsi ad essa. Ci sarà
chi biasimerà i soldati che hanno volontariamente anteposto la
propria morale all’ambizione politica. Ciò che importa è
decidere. Non importa se hai scelto di non arruolarti affatto, o se
ti sei reso conto dopo il tuo ingresso nelle forze armate di essere
stato deluso da un livello di integrità di molto inferiore a
quello che pensavi, il momento in cui hai capito quale era la verità,
quello era il momento di fare una scelta. Il mio arrivò quando
mi mancavano soltanto tre settimane di servizio in missione, durante
l’anno che ho trascorso in Iraq. La consapevolezza della propria
etica non ha un momento preciso per manifestarsi. Quando ho fatto la
mia scelta, ho informato la catena di comando riguardo i miei
convincimenti. Potevo già immaginare da questa prima
conversazione che le cose non sarebbero andate bene da quel momento
in avanti. Dissi loro che ritenevo illegale la nostra presenza in
Iraq. Ho spiegato che non credevo più in una strategia
politica di guerra, e che avrei fatto domanda per fare obiezione di
coscienza. In parole povere, non potevo più in coscienza
partecipare ad azioni di combattimento contro la gente irachena.
Mai più. Pochi secondi dopo aver pronunciato
queste parole, la mia vita è cambiata. Ho sentito in me la più
profonda sensazione di pace mai provata da più di un anno. Ero
certo di aver fatto la cosa giusta. Subito dopo, sono stato
disarmato, messo in isolamento, e mi è stato proibito di avere
contatti con qualsiasi famigliare o parente.
Sono stato messo illegalmente in
isolamento, su di una branda in una sala operatoria, sorvegliato 24
ore su 24, seguito da una scorta persino al bagno, prima di essere
formalmente accusato, due settimane più tardi, di aver
rifiutato di eseguire un ordine. Sono rimasto confinato fino a quando
non mi sono dichiarato colpevole (non avevo molta scelta) ,meno di
una settimana dopo questi fatti. Sono stato immediatamente trasferito
a Camp Arifjan, in Kuwait, per restare trenta giorni dentro la
prigione locale. Sono stato rilasciato l’altro giorno e ora sto per
essere “cacciato” con un “tutt’altro che onorevole”
congedo. Non rimpiango nulla. Una volta che ho parlato al mio comando
chiarendo le mie convinzioni, e una volta che i miei superiori hanno
capito che non mi sarei fatto intimidire, hanno deciso di iniziare
contro di me una “guerra dell’informazione”.
Avevo molti amici contrari alla guerra
su My Space e altri canali internet che divulgavano informazioni
riguardo la mia prigionia e le facevano circolare in tutto il mondo,
letteralmente in un baleno. Prima che lo sapessi, fui convocato
nell’ufficio del sergente capo e iniziarono a lamentarsi e ad
urlare perché i loro nomi apparivano “dappertutto su
internet”. Non hanno cercato di negare le cose che venivano dette
di loro, o il fatto che io fossi stato maltrattato e che loro
rifiutassero di riconoscere la mia richiesta di fare obiezione di
coscienza, bensì erano infuriati per via dell’esposizione
mediatica cui erano sottoposti.
Il soldato al contrattacco. Il
giorno dopo mi dissero che ero stato “segnalato” come problema
dell’Opsec (Operational Security, “sicurezza operativa”
n.d.r.). Non mi è stata data nessuna spiegazione. Erano ostili
e ossessionati dalla volontà di fare di me “un esempio”,
cercando in ogni modo di screditarmi e rovinare la mia reputazione. Hanno trascorso
giorni interi a
produrre pagine di “richiami” (“counseling statements” nel
testo, ovvero richiami ufficiali che seguono violazioni del
regolamento o della condotta militare n.d.r.)per screditare in
maniera retroattiva il mio curriculum militare. Il fatto che non ci
fossero precedenti documenti che attestassero queste presunte
violazioni fece sì che le accuse cadessero, e loro lo
sapevano.
Avevano bisogno di “qualcosa di più”. Chiesero ripetutamente quali fossero i
miei nomi utente e le mie password su internet e MySpace, posta
elettronica privata, tutto. Tutto ciò sotto la minaccia di
“maggiori e più gravi accuse a mio carico” nel caso mi
fossi rifiutato.
Hanno voluto leggere le mie e-mail,
tutti i miei blog, qualunque cosa, nel tentativo di trovare qualcosa.
Niente che potessero usare per far sì che sembrasse che fossi
colpevole di aver divulgato informazioni riservate. Volevano
accusarmi e rovinare al massimo la mia credibilità, e avevano
un disperato bisogno di giustificare in qualche maniera la mia
detenzione illegale in isolamento.
Due settimane più tardi, quando
finalmente hanno capito che non sarebbero stati in grado di accusarmi
per “divulgazione di informazioni riservate”, mi hanno accusato
di una serie di “rifiuti di eseguire gli ordini”. Questi ultimi
non comprendevano soltanto il mio rifiuto di partecipare alle
missioni di combattimento, ma anche cose ridicole tipo “non si
mette sull’attenti” e “si è presentato in ritardo alle
mansioni assegnate”. Potete immaginare. Il mio comandante ha infine offerto di
“lasciarmi libero” se mi fossi imediatamente dichiarato colpevole
di tutto e avessi accettato una sommaria corte marziale. Le opzioni
che mi si presentavano erano chiare. Avrei potuto accettare, passare
trenta giorni in prigione, e riavere indietro la mia vita. Oppure
avrei potuto farmi sbattere di nuovo in isolamento per altri due
mesi, dando loro la possibilità di fare di me un esempio per
tutto il battaglione, dicendo “questo è quello che succede a
chi si oppone alla guerra”.
Lascerò che credano di aver
vinto, per ora.
Libertà. La verità
verrà allo scoperto, e non c’è nulla che possano fare
per nasconderla. L’occupazione è un disastro. Sono convinto
che ogni giorno in più di questo stato di cose renda sia
l’America che l’Iraq meno sicuri. Oppormi alla guerra e mantenere la
schiena dritta di fronte ai miei superiori è stata senza alcun
dubbio una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Ho fatto la
scelta giusta, e in regalo ho avuto indietro la mia libertà.
Forse tra dieci anni quelli di noi che hanno resistito dall’interno
alla forza militare oggi, saranno visti come i primi pochi coraggiosi
ad aver detto la verità, facendo seguire i fatti alle parole.
Anche adesso ci sono molti intorno a me che mi ricordano che non sono
il solo a pensarla in questo modo, vale a dire la maggioranza degli
americani, che si sono resi conto che i pezzi che compongono il
mosaico di questo conflitto semplicemente non combaciano.
Cercate la verità. Prendete una
decisione.
dall'agente speciale dell'esercito
della Guardia Nazionale degli Stati Uniti d'America
Elonai 'Eli' Israel