Scritto per noi da
Lorenzo Bagnoli
La chiamano la Corea del Nord dell'Africa: un fazzoletto di terra di 121mila chilometri quadrati dove vivono, dati di cinque anni fa, 4 milioni di persone. Questa è l'Eritrea, un Paese dove dal 1993, anno dell'indipendenza, governa senza tregua Isais Afewerki. Ogni mese, mille eritrei riescono a scappare dal Paese: in Sudan, in Libia, in Etiopia, o in Egitto. Non è dato sapere in quanti ci provano, fallendo nell'impresa. Fino a prima della rivoluzione in Libia, la meta privilegiata è sempre stata l'Europa meridionale, l'Italia ex colonizzatrice prima fra tutti. Poi il trend è cambiato: "Solo nell'ultima settimana - spiega don Mosè Zerai, direttore dell'agenzia umanitaria Habeshia - sono arrivati in Israele 600 eritrei". Tel Aviv è la nuova terra promessa, ora che dai porti libici non si riesce più a partire. Il passaggio obbligato è diventata la penisola del Sinai al posto dei porti di Cirenaica e Tripolitania. "Nel giro di pochi anni - prosegue don Zerai - si è formata una comunità di 200mila persone". Altre 260mila dimorano nei campi profughi sparsi tra il nord Sudan e l'Etiopia. "In città ormai si vedono solo anziani e donne con figli", dice Zerai.
Gli ultimi sbarchi di eritrei sulle nostre sponde risalgono all'emergenza profughi di quest'estate. Insieme ai somali, sono gli unici a cui la Commissione territoriale, l'organo del Viminale che convalida o meno lo status di rifugiato ai richiedenti asilo, difficilmente nega la protezione. "Ormai le Commissioni giudicano a blocchi - spiega padre Mosè Zerai - , a seconda della nazionalità. Tengono poco conto dei casi singoli e delle diversi motivi per cui una persona è perseguitata". Anche se Gheddafi è morto, la Libia è ancora un Paese pericoloso per gli immigrati: "Le persone con cui sono in contatto raccontano che non possono più nemmeno uscire di casa, per il timore di rappresaglie".
Così, al posto di sognare l'Occidente, in molti eritrei ripiegano su altri Paesi, come l'Etiopia: "È un Paese più sicuro - dice Desbele Mehari, tigrino a capo del Partito democratico eritreo, fuggito in Italia negli anni'80 e sindacalista della Cgil -, dove è più facile ottenere un permesso per lavorare. È una situazione che è cambiata negli ultimi anni, prima i rapporti erano molto più difficili". Ormai le rotte verso il Sudan, la Libia e l'Egitto sono diventate troppo pericolose.
Lo dimostra l'ultima notizia diffusa dall'agenzia Habeshia il 9 novembre: un gruppo di 118 fuggitivi rischia il rimpatrio dopo essere stato catturato dall'esercito egiziano nella zona attorno alla città di Aswan. Scappavano verso Israele, con l'intenzione di domandare asilo politico. Già da dieci giorni si trovano nelle mani dei militari del Cairo. Hanno provato a convincerli a tornare in patria e quasi nessuno ha accettato. I riottosi verranno riportati ad Asmara con la forza: "Le forze egiziane stanno nascondendo una deportazione dietro un finto rimpatrio volontario", denuncia don Zerai. Nel gruppo ci sono 26 donne, alcuni bambini e una decina di ex funzionari del regime di Afewerki. "Sono i più esposti, quelli che rischiano di più", confessa don Zerai.
Nel Sinai, altre 400 persone si trovano da quasi un anno nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Questi pretendono un riscatto tra i 30 e i 40mila dollari per ogni persona e obbligano i prigionieri a mettersi in contatto con la famiglia per fornire indicazioni su come versare il pagamento ai rapitori. Ma la cifra è inaccessibile per tutti: "Da mesi denunciamo questo fatto ma ancora la situazione non si è sbloccata", conclude don Zerai.
"Adesso in Eritrea - continua Desbele Mehari, capo degli antagonisti al regime di Afewerki - non puoi alzare un dito che ti arrestano - denuncia Mehari -. Ma non può durare ancora per molto". Della libertà non c'è traccia, così come non esiste alcuna prospettiva per il futuro. Ma secondo Mehari le acque si stanno muovendo: "Certo, fare opposizione dall'estero è difficile, ma con le nuove tecnologie è possibile comunicare anche a distanza". Padre Mosè Zerai dell'agenzia Habeshia , però, sostiene che l'elite che ha accesso ai mezzi di comunicazione è molto ristretta: "L'unica possibilità - dice il prete- è una sollevazione dell'esercito, ma secondo me è improbabile". Più ottimista Desbele Mehari: "Ci stiamo lavorando. Noto un indebolimento nelle convinzioni delle forze dell'ordine eritree, per due motivi. Il primo è per i rivolgimenti in Nord Africa, raccontati in modo dettagliato dai canali arabi, che hanno un buon seguito in Eritrea. Il secondo è l'opera dei giovani eritrei che stanno cercando di organizzarsi". Ma Tripoli, Tunisi e il Cairo distano ancora anni luce dalla capitale eritrea.