Gli editoriali di prima pagina di ieri su Repubblica
e Corriere della Sera
hanno ufficialmente dato il via alla campagna
stampa contro il ritiro dell’Italia dalla guerra in corso in
Afghanistan. Con
argomenti diversi che ben sintetizzano, nella discussione sul ruolo
italiano in Afghanistan, l'opinione di chi vuole lasciare le truppe
italiane in quel paese, o addirittura aumentarne la presenza. Argomenti
diversi, dicevamo, ma entrambi confutabili.
Guido Rampoldi, su Repubblica. “Oggi quel pacifismo
invoca il rimpatrio del contingente italiano dall´Afghanistan: ma evita di
chiedersi cosa accadrebbe laggiù se la Nato fuggisse. Accadrebbe questo:
naufragherebbe la possibilità di sottrarre gli afgani alla guerra civile
cominciata oltre trent´anni fa. Dilagherebbe ovunque una mischia furibonda,
combattuta dai pesi massimi dell´area attraverso le milizie afgane, un
"tutti contro tutti" che provocherebbe dapprima il collasso
definitivo del Paese e d´ogni minima traccia di statualità, quindi l´ennesimo
sterminio per fame di decine o centinaia di migliaia di afgani, soprattutto
donne e bambini. Infine al-Qaeda tornerebbe ad essere padrona di gran parte
dell´Afganistan; e l´avvento definitivo della casta guerriera, assassini molto
pii, comporterebbe per le ragazze di Kabul la fine d´ogni speranza”.
Franco Venturini, sul Corriere della Sera. “Andarsene
dall'Afghanistan? No, perché, a dispetto dei rischi comuni, Afghanistan e Iraq,
lungi dall'essere simili, rappresentano le due concezioni opposte della
politica internazionale e del ricorso alla forza. (...) L'intervento in
Afghanistan, all'indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, è cosa del
tutto diversa. Le motivazioni furono veritiere (perché in Afghanistan i
terroristi c’erano, a differenza delle armi di distruzione di massa in Iraq).
Al posto dell’unilateralismo preventivo di Bush si formò una coalizione che comprendeva
anche Paesi islamici. E il pur contorto via libera dell’Onu (risoluzione 1386)
arrivò prima, non dopo la guerra. (…) La missione in Afghanistan, lasciata a
metà dagli Usa per volgersi contro Baghdad, risulta ancora oggi incompiuta con
Bin Laden libero e attivo. Tanto più che in Afghanistan è presente quella
comunità internazionale alla quale vogliamo appartenere (Francia, Germania,
Spagna) e un ritiro unilaterale comporterebbe per l’Italia una frattura
strategica ben più grave e onerosa di quella che si produrrà con il rientro
dall’Iraq”.
E’ la presenza delle truppe che crea instabilità.
Senza le truppe straniere l’Afghanistan precipiterebbe nel caos, scrive
Rampoldi. Peccato che nel caos l’Afghanistan ci sia già oggi, nonostante la
presenza delle truppe straniere, e anche a causa della loro presenza. Quattro
anni di occupazione militare straniera (Usa e Isaf) non sono serviti a
rafforzare l’autorità del governo di Karzai, che non si è mai estesa al di
fuori di Kabul e dei principali capoluoghi di provincia. Nel resto del Paese
hanno continuato a comandare e a imperversare i signori della guerra e
dell’oppio, e le condizioni di vita della popolazione non hanno conosciuto miglioramenti.
Anche per colpa di una
ricostruzione inesistente, di cui hanno
beneficiato solo le aziende appaltatrici statunitensi e i corrotti politici del
governo Karzai.
Nel sud i talebani, fuggiti ma mai sconfitti, sono tornati
dal Pakistan e hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province
di Kandahar, Helmand, Uruzgan, Zabul e Kunar, lanciando un’offensiva contro le
truppe straniere e governative che ha causato 6.500 morti in quattro anni
(1.300 solo negli ultimi 5 mesi), con centinaia di civili afgani uccisi nei
bombardamenti aerei Usa (una trentina solo lo scorso 22 maggio nel
bombardamento di un villaggio vicino a Kandahar).
Questi massacri di innocenti, le violenze e gli abusi delle
truppe Usa nel corso dei rastrellamenti dei villaggi, le torture nelle Abu
Ghraib afgane dei carceri militari di Bagram e Kandahar, il generale
atteggiamento aggressivo e sprezzante delle truppe Usa nei confronti della
popolazione: tutto ciò ha fatto montare negli afgani, alcuni di loro inizialmente
abbastanza
ben disposti
verso la presenza militare straniera, un risentimento sempre maggiore nei
confronti delle truppe d’occupazione e il governo Karzai. La rivolta di
Kabul
dell’altro giorno è stata una dimostrazione eclatante. Questo montante odio
popolare non fa distinzione tra soldati Usa o di altri paesi Nato: per gli
afgani non c’è differenza tra un marines e un alpino, e le colpe dei primi
ricadono sui secondi in maniera del tutto automatica. Per la stragrande
maggioranza degli afgani – che conoscono a mala pena la geografia del proprio
Paese – italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli, europei, americani sono la
stessa cosa: “stranieri”. Stranieri di cui non si fidano più, stranieri di cui
hanno le tasche piene.
Come le hanno del governo cosiddetto “democratico” di
Karzai, in cui all’inizio molti hanno sinceramente creduto, ma che ormai considerano
un
traditore, un fantoccio degli stranieri, un potere lontanissimo dai bisogni
della gente. In questa situazione di frustrazione, rabbia e disillusione, è
comprensibile che la società afgana torni a guardare con speranza ai talebani
e al
loro movimento armato, che trova un terreno di propaganda e proselitismo sempre
più fertile e un sostegno popolare sempre più forte. E’ vero che l’Afghanistan
rischia di esplodere e di tornare in mano ai talebani, ma proprio grazie al
catalizzatore della presenza militare straniera.
La legalità della missione è tutt’altro che scontata.
La missione Italiana in Afghanistan è legittima, contrariamente a quella in
Iraq, scrive Venturini. Peccato che, se si guarda alla storia di questa
missione, emerga chiaramente non solo l’ambiguità della sua originaria
legittimità internazionale, ma soprattutto i metodi antidemocratici con cui il
governo italiano ha portato – e mantenuto per oltre quattro anni – l’Italia in
guerra: violando la Costituzione italiana, violando la condizione alla quale il
Parlamento aveva votato la partecipazione alla guerra, ampliando il
coinvolgimento militare italiano facendolo passare con stratagemmi legali tutt’altro
che trasparenti, evitando ogni
dibattito sul cambiamento della natura della missione Isaf, sulle nuove
regole d’ingaggio, sulla decisione di inviare aerei caccia-bombardieri.
In violazione all’articolo 11 della Costituzione
repubblicana con cui l’Italia “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali”, il nostro Paese è entrato in guerra in
Afghanistan il 7 novembre 2001, con l’approvazione bipartisan (esclusi solo
Pdci, Prc e Verdi) di una
risoluzione parlamentare
che autorizzava la partecipazione italiana all’operazione
bellica Usa
Enduring Freedom – a sua volta ‘legittimata’ dalla
vaghissima
risoluzione Onu n. 1368 del 12 settembre 2001 che, senza nemmeno citare l’Afghanistan, autorizza a
“combattere con tutti i mezzi la minaccia del terrorismo” facendo riferimento
al “diritto di autodifesa individuale o collettivo” stabilito dall’articolo 51
della Carta delle Nazioni Unite. Il Parlamento approvò quella risoluzione a un
patto: “impegnando il Governo a riferire tempestivamente al Parlamento circa
gli sviluppi significativi degli eventi, nonché a sottoporre ad esso eventuali
nuove decisioni che si rendessero necessarie nel prosieguo del conflitto”. Cosa
che non è mai accaduta.
Il 20 dicembre 2001, la
risoluzione Onu n. 1386 dà
vita – ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – alla missione
di stabilizzazione Isaf (International Security Assistance Force), cui
l’Italia
aderisce automaticamente, formalizzando la sua partecipazione il 10
gennaio
2002, con la firma a Londra, assieme ad altre 15 nazioni, di un
Memorandum of
Understanding. L’unico passaggio parlamentare riguardante la missione
Isaf
avviene il 27 febbraio 2002, con l’approvazione della “
legge n. 15/2002 di
conversione,
con modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n.
451, recante disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana
ad operazioni militari internazionali”.
La “modificazione” riguarda l’inserimento nel testo del decreto di un
riferimento alla missione ISAF “connessa a Enduring Freedom”.

Con lo stesso discutibile sistema delle “modificazioni” aggiunte nelle leggi di
conversione di decreti-legge, il Parlamento ha approvato a posteriori la
partecipazione dell’Italia a altre due missioni di guerra della Nato “connesse
a Enduring Freedom” e iniziate il 21 ottobre 2001 con l’applicazione – per la
prima volta nella storia Nato –
dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica che stabilisce
che ogni attacco a uno stato membro è da considerarsi un attacco all'intera
alleanza. L’11 agosto 2003 (
legge n. 231/2003
) viene approvata la partecipazione alla missione Active Endeavour, e il 12 marzo
2004 (
legge n. 68/2004) quella alla missione Resolute Behaviour, entrambe e svolte da unità navali,
rispettivamente, nel Mediterraneo orientale e nel Mare Arabico.
Nell’agosto 2003, la missione Isaf passa sotto comando Nato, ovvero di
un’alleanza militare formalmente in guerra con l’Afghanistan. Pochi mesi dopo,
il 13 ottobre 2003, la
risoluzione Onu n. 1510
stabilisce l’espansione della missione Isaf dalla sola Kabul a tutto il
territorio nazionale afgano, prevedendo una progressiva espansione anche nelle
zone meridionali e orientali dove le forze Usa continuano a combattere la
resistenza talebana. Questa decisione è legata allo scoppio della guerra in
Iraq, dove le forze Usa sono così impegnate da doversi disimpegnare dal fronte
afgano, che viene ‘passato in consegna’ agli alleati della Nato, proprio nel
momento in cui la resistenza talebana torna a farsi sentire con maggior
violenza. Dopo un 2004 relativamente tranquillo (700 morti), il 2005 registra
una drammatica escalation dei combattimenti con oltre 2 mila morti. Questo
preoccupante cambiamento della situazione, proprio alla vigilia della “fase 3”
di espansione della missione Isaf nel turbolento sud del Paese (prevista per la
primavera 2006), impone alla Nato l’esigenza di “irrobustire” le regole
d’ingaggio dei militari impegnati nella missione, che di fatto muta la sua
natura da missione di pace a missione di guerra. Tra la fine del 2005 e
l’inizio del 2006 questo delicato argomento genera polemiche e accesi
dibattiti, anche parlamentari, in tutti i Paesi europei. Non in Italia, dove il
23 febbraio 2006 il governo Berlusconi, pur di non affrontare un dibattito in
aula sulla mutata natura della missione dei nostri 2 mila soldati impegnati in
Afghanistan (e sul progetto di invio di sei caccia-bombardieri Amx
dell’Aeronautica Militare), decide di inserire l’autorizzazione al
rifinanziamento delle missioni afgane Isaf e Enduring Freedom nel
maxiemendamento (
legge n. 51/2006) alla Finanziaria del dicembre 2005, imponendo la fiducia e approvandola con
i
soli voti della maggioranza. La legge autorizza fino al 30 giugno 2006 la spesa
di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom, Active Endeavour,
Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione all'Isaf. Più
altri 3.349.403 per le “piccole spese”. In totale 165.722.851 per sei mesi. Il
che significa, in prospettiva, una spesa di oltre 320 milioni di euro l’anno:
soldi nostri, che potrebbero essere destinati a scopi ben più utili, sia in
Afghanistan che qui in Italia.
Per un dibattito politico onesto sulla missione in Afghanistan. Gli italiani hanno il diritto di scegliere se continuare o
meno a spendere i propri soldi e a mandare a morire i propri figli per una
missione di pace in un paese in guerra, una missione sempre più pericolosa e
avversata dalla popolazione locale, all’unico scopo – qui Venturini è stato
onesto – di evitare una “frattura strategica” con gli alleati della Nato, Stati
Uniti in testa. L’Afghanistan ha bisogno di ospedali, scuole, strade e pozzi,
non di blindati, fucili, elicotteri e caccia-bombardieri.