L’onorevole Wahab Akbar, il deputato del partito di governo rimasto
ucciso nell’attentato avvenuto martedì sera fuori dal parlamento filippino, non
è un personaggio politico qualunque.
Fedele sostenitore della presidente Gloria Macapagal Arroyo,
eletto nelle liste del partito conservatore al governo – il Lakas-Cmd – come
rappresentate della provincia di Basilan, il musulmano Akbar era ritenuto da molti
il ‘grande vecchio’ che stava dietro al movimento terrorista Abu Sayyaf. Un uomo
potente che aveva molti amici, ma anche molti nemici.
Il signore di Basilan,
la terra di Abu Sayyaf. L’isola meridionale musulmana di Basilan, di cui
Akbar è stato governatore per tre mandati – carica oggi ricoperta dalla sua
prima moglie, la seconda è sindaco del capoluogo Isabela – è il luogo in cui è nato, all’inizio degli
anni ’90, il movimento terrorista islamico di Abu Sayyaf.
Secondo la storiografia ufficiale, questo gruppo armato è
stato creato, e inizialmente guidato, da Abdurajik Janjalani: un jihadista
originario di Basilan ma formatosi in Afghanistan durante la guerriglia
antisovietica degli anni ’80. Al termine di quel conflitto, lo stesso Osama bin
Laden gli avrebbe affidato il compito di portare la guerra santa in patria
fondando un nuovo gruppo locale, Abu Sayyaf appunto. Un gruppo piccolo ma
agguerrito, specializzatosi in attentati dinamitardi e rapimenti: dal sequestro
dei turisti stranieri nel resort malese di Sipadan nel 2000 fino al recente
rapimento di padre Giancarlo Bossi.
Per combattere Abu Sayyaf, il governo di Manila ha inviato
migliaia di soldati a Basilan, Jolo e Mindanao e ha chiesto il sostegno
militare, e finanziario, degli Stati Uniti: dopo l’11 settembre gli Usa hanno
dislocato in zona centinaia di forze speciali nell’ambito della guerra globale
al terrorismo.
Da numerose interviste realizzate negli ambienti
giornalistici, intellettuali e militari filippini – tra cui il colonnello dei
Marines filippini che la scorsa estate ha guidato le ricerche di padre Bossi
sull’isola di Basilan – è unanimemente venuto fuori che Abu Sayyaf è una
creatura del governo filippino messa in piedi allo scopo di sabotare il
processo di pace con gli indipendentisti islamici del Fronte Moro Islamico di
Liberazione (Milf) e di giustificare la guerra al terrorismo nel sud musulmano
del paese. Una messa in scena che ai generali e ai politici di Manila serve per
legittimare la progressiva militarizzazione del Paese, creare una ‘solidarietà
nazionale’ attorno all’esercito e alle forze armate e giustificare il crescente
sostegno militare ed economico di Washington. Qualcosa di analogo, insomma,
alla nostrana “strategia della tensione”.
Wahab Akbar, il vero
capo di Abu Sayyaf. L’uomo che, da dietro le quinte, avrebbe dato vita a
tutto questo e che fino a oggi avrebbe manovrato Abu Sayyaf sarebbe proprio lui:
Wahab Akbar.
Nel 1992, l’allora presidente filippino Fidel Ramos, ex
cadetto dell’accademia militare Usa di West Point, incaricò l’intelligence
militare di creare un gruppo terrorista per sabotare la lotta del popolo Moro.
Assieme
all’agente segreto Edwin Angeles, Akbar arruolò il carismatico Janjalani.
Angeles procurò le armi, provenienti dai depositi dell’esercito, e Akbar
garantì la copertura politica alle azioni del gruppo. Azioni fatte ricadere sul
Milf per screditarlo. Oppure azioni condotte a scopi politici contingenti, come
ad esempio distrarre l’opinione pubblica durante scandali che coinvolgono
l’esecutivo o convincerla della bontà di certe politiche governative.
In questa logica, come hanno spiegato le fonti interpellate
da PeaceReporter, rientra anche il
rapimento Bossi e la successiva decapitazione dei Marines filippini impegnati
nelle ricerche: azioni condotte dagli uomini di Abu Sayyaf, ovvero dai
mercenari al soldo di Wahab Akbar, che hanno agito con il concorso di
poliziotti e funzionari locali corrotti. Risultato: il governo è riuscito a far
approvare una legge anti-terrorismo che amplia i poteri dell’esercito e che per
questo era stata contestata dall’opposizione e dalla Chiesa filippina. In
cambio, Akbar si è tenuto gran parte del riscatto pagato per la liberazione del
missionario italiano: quasi un milione di euro.