C'è stata l'euforia, seppur stemperata dal timore che in realtà non fosse cambiato granché. E ora, con Aung San Suu Kyi libera dopo sette anni di arresti domiciliari, l'Occidente guarda alla Birmania con misto di cautela e attesa per capire come si evolverà lo scenario politico del Paese dopo le elezioni e il rilascio della leader dell'opposizione. Nel frattempo, in Europa e in particolare negli Stati Uniti sta emergendo un crescente consenso sull'opportunità di ammorbidire, o addirittura rimuovere del tutto, le sanzioni economiche al regime al potere dal 1962.
Dopo la repressione delle manifestazioni popolari nel 1988 e il mancato riconoscimento del trionfo elettorale della Lega nazionale per la democrazia nel 1990, Usa e Ue hanno adottato una serie di restrizioni finanziarie e commerciali contro la giunta militare, impedendo di fatto (con alcune eccezioni) gli affari delle imprese occidentali con la Birmania. I Paesi asiatici ne hanno approfittato per penetrare con i loro investimenti, in particolare la Cina.
Un ripensamento dell'attuale politica, che non ha impedito al regime di regnare incontrastato negli ultimi due decenni, negli Stati Uniti è iniziato già nel 2008, con l'arrivo di due alti diplomatici americani in Birmania per alcuni incontri con ufficiali del regime. Non ne è però scaturito granché: gli Usa, nonostante l'approccio, non hanno ottenuto dalla giunta impegni precisi, e il dialogo non è proseguito. Il regime ha organizzato le elezioni programmate da tempo, con tutta una serie di misure che avrebbero reso impossibile una sconfitta per il partito espressione della giunta, che ha trionfato come ci si aspettava.
Poi è arrivato il rilascio di Suu Kyi, al termine dell'ultima estensione dei suoi arresti. L'icona della dissidenza, in passato considerata un'irriducibile decisa a non dialogare con il regime, è tornata in libertà esibendo un altro atteggiamento. Parla di unità e riconciliazione nazionale, invece che di democrazia. E appare aperta anche a discutere di sanzioni: "Se il popolo vuole che siano tolte, ne terrò conto", ha detto il giorno dopo la liberazione. Considerando che negli anni Novanta invitava i turisti a boicottare la Birmania, è già una mezza rivoluzione. Non è forse un caso che il turismo verso la Birmania, dopo la liberazione di Suu Kyi, viene dato in forte ascesa dalle agenzie straniere.
Da quel momento, diversi editorialisti occidentali hanno proposto la rimozione delle sanzioni, considerati inefficaci e un sicuro modo di regalare il Paese a Pechino (in Birmania, la Cina ha enormi interessi energetici, con la costruzione di un gasdotto e di un oleodotto che le consentirà di ridurre tempi e costi delle importazioni di greggio mediorientale). I politici non hanno preso una posizione definita, ma Usa e Ue sembrano comunque aver sospeso le critiche nei confronti della giunta, come se si fosse formato un consenso che le elezioni irregolari e il rilascio di Suu Kyi - nonostante 2.100 prigionieri politici rimangano in carcere, e il potere rimanga saldamente in mano al regime - siano comunque un primo passo da incoraggiare.
"Non credo che le sanzioni verranno rimosse in fretta", spiega a PeaceReporter Sean Turnell, un economista alla Macquarie University che da tempo segue la Birmania. "C'è comunque un senso di attesa per le mosse del regime: per modificare le sanzioni serve un cambiamento evidente, riforme concrete a favore della popolazione, anche nel caso di scarse aperture politiche, sul modello di Cina e Vietnam; comunque qualcosa che dimostri una buona fede da parte della giunta". Nel frattempo, il nuovo Parlamento uscito dalle elezioni - dominato dal blocco del regime - si riunirà per la prima volta il 31 gennaio.
Il problema è che, prima e dopo il rilascio di Suu Kyi, dai generali al potere continua ad arrivare solo silenzio. "Delle reali intenzioni della giunta sappiamo davvero poco", continua Turnell. Il regime, grazie alla sua centralità strategica tra Cina e India e alle vaste risorse naturali, ha si è comunque garantito un ampio afflusso di denaro straniero grazie agli affari con i Paesi asiatici; lo scorso novembre, la principale azienda di costruzioni thailandese ha vinto l'appalto per lo sviluppo di un porto con annessa zona industriale nella città di Dawei, per un investimento da 6,8 miliardi di euro.
La Birmania è però molto meno monolitica di quanto venga percepita all'estero, e anche all'interno del regime ci sono idee discordanti sulle politiche da adottare. "Gli imprenditori birmani, per quanto legati al regime, sono profondamente critici della giunta una volta che si sentono liberi di parlare, usciti dal Paese", conclude Turnell. "Si lamentano dell'irrazionalità delle decisioni, dei continui cambi di regole, delle restrizioni senza senso". Se avranno un effetto o meno sulle future politiche della giunta, lo si potrebbe intuire presto.
Alessandro Ursic