25/11/2004versione stampabilestampainvia paginainvia



Oggi summit tra Ue e Russia. L'indifferenza europea verso i crimini ceceni di Putin
Josè Manuel Barroso e Vladimir PutinLe storie che seguono sono state raccolte da Amnesty International nel rapporto “Il rischio di parlare”, pubblicato in questi giorni in occasione del summit euro-russo che si tiene oggi all’Aja.
Il nuovo presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e il presidente russo Vladimir Putin discuteranno di affari e politica, tra sorrisi e strette di mano.
“L’Unione europea – afferma Dick Oosting, direttore di Amnesty a Bruxelles – non può far finta di nulla, non può ignorare il progressivo deterioramento della situazione dei diritti umani nella repubblica russa di Cecenia, dove non solo viene colpita la popolazione civile innocente, ma anche i difensori dei diritti umani. Questo non può lasciare indifferenti le istituzioni europee, soprattutto quando questi cittadini subiscono ritorsioni da parte russa per aver osato rivolgersi alla Corte europea per ottenere giustizia. L’incontro dell’Aja ha lo scopo di creare uno ‘spazio comune di sicurezza, libertà e giustizia tra Russia e Ue’: parole vuote finché in Cecenia le forze armate russe continuano impunemente e sistematicamente a violare i diritti umani della popolazione civile”.
 
Luisa Bisieva, filgia di Zura BitievaUna vera madre coraggio. La signora Zura Bitieva, un coraggiosa donna cecena del villaggio di Kalinovskaya, era impegnata nel campo dei diritti umani fin dall’inizio della seconda guerra cecena, nell’ottobre 1999. Per conto della ong russa Society for Russian-Chechen Friendship e anche per Amnesty International, Zura raccoglieva informazioni sui crimini di guerra commessi dall’armata russa. Per questo aveva già pagato un caro prezzo: all’inizio del 2000, subito dopo la conquista russa della Cecenia, era stata rinchiusa con suo figlio Idris Iduev nel famigerato campo di concentramento russo di Chernokozovo, dove era stata picchiata per un mese durante interrogatori volti a scoprire per chi raccogliesse informazioni. La sua detenzione era finita in ospedale.
Dopo quella tremenda esperienza Zura ha continuato nel suo lavoro con più decisione che mai, aiutata da suo marito Ramzan Iduev, che l’ha convinta a sporgere denuncia alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo.
Per lungo tempo, tranne qualche minaccia, Zura ha pensato che i russi si fossero dimenticati di lei.
Ma non era così.
Il 21 maggio 2003, quindici soldati delle forze speciali russe sono entrati in casa sua, immobilizzando lei, suo marito Ramzan, suo figlio Idris e suo fratello Abubakar. Con del nastro adesivo hanno legato loro mani e piedi e tappato la bocca. Poi li hanno uccisi con tre colpi di pistola alla nuca per ciascuno. A questa strage sono sopravvissuti solo la figlia minore di Zura, Luisa Bisieva (nella foto), che non era in casa, e il suo bambino di un anno, risparmiato dai soldati.
La giovane Luisa, dopo essersi ripresa dallo shock, si è fatta coraggio e ha portato avanti la causa aperta da sua madre presso la Corte di Strasburgo, informandola della morte di Zura. Poi si è rivolta anche ad Amnesty International.
Luisa ha continuato e continua ancora a ricevere minacce da parte dei militari russi: le dicono di lasciar perdere le sue denunce se non vuol finire in prigione come sua madre per “collaborazionismo con i terroristi”.
 
La moglie e la madre di Aslan DavletukaevColpevole di essere ceceno. Aslan Davletukaev, un ragazzo ceceno di 29 anni, lavorava anche lui per l’ong russa Society for Russian-Chechen Friendship, per la quale raccoglieva testimonianze sulle sparizioni di civili ceceni rapiti dai militari russi.
Intorno alle dieci di sera del 9 gennaio 2004, cinque blindati russi si sono fermati davanti casa sua, nel villaggio di Avtury. Ne sono scesi una trentina di soldati russi in mimetica e passamontagna che hanno fatto irruzione nell’abitazione e hanno preso Aslan, minacciando di uccidere suo figlio di otto anni e sua moglie se lui avesse fatto resistenza all’arresto. L’anziano padre di Aslan ha chiesto ai militari quale fosse il crimine commesso da suo figlio, e un ufficiale gli ha risposto: “E’ colpevole di essere ceceno!”. Il bambino di Aslan è scoppiato a piangere correndo verso suo padre e cercando di abbracciarlo, ma un soldato lo ha respinto con un calcio.
Alla fine i soldati sono andati via con Aslan. La famiglia è montata in macchina e ha seguito i blindati fino alla caserma di Shali, dove si sono fermati.
La mattina dopo sono tornati tutti alla caserma per chiedere notizie di Aslan, ma i militari si sono rifiutati di dare spiegazioni e li hanno mandati via.
Il 16 gennaio il cadavere di Aslan è stato trovato davanti a un bar abbandonato, alla periferia di Gudermes. Il suo corpo era martoriato e il suo volto era così orrendamente sfigurato dai segni delle percosse e delle torture (non aveva più nemmeno i denti) che i parenti hanno fatto fatica a identificarlo.
La sua famiglia ha sporto subito denuncia, ma il caso è stato archiviato per “impossibilità di identificare i responsabili”.
Così la moglie e la madre di Aslan (nella foto) hanno sporto denuncia ad Amensty International. E ora, temendo ritorsioni, tutta la famiglia Davletukaev ha lasciato Avtury e vive nascosta.
 
I genitori di Timur YandievL’esperto di computer. Timur Yandiev, un ragazzo inguscio di 25 anni, originario di Karabulak ed esperto di computer, lavorava a Nazran, capitale inguscia, nello studio del vice-procuratore Rashid Ozodev, coraggioso magistrato che indagava sugli abusi commessi in Inguscezia dai servizi segreti russi, Fsb. Timur lo aiutava a raccogliere informazioni via Internet.
L’11 marzo 2004 il giudice Ozodev è stato rapito da uomini armati non meglio identificati.
Cinque giorni dopo, la stessa sorte è toccata al giovane Timur.
Stava camminando per la strada quando, secondo testimoni, intorno alle 16:30 due auto bianche senza targa lo hanno affiancato. Ne sono scesi sei uomini in mimetica e passamontagna, che lo hanno prelevato e portato via.
I genitori di Timur (nella foto) hanno provato per giorni a chiamarlo sul suo cellulare, ma suonava a vuoto.
I primi di aprile si sono rivolti alla polizia inguscia, con l’unico risultato di sapere che le due auto erano state fermate dalla polizia inguscia vicino alla frontiera cecena e che sicuramente appartenevano alle forze federali stazionate in Cecenia.
Così hanno deciso di sporgere denuncia ad Amnesty International.
Da allora non hanno più avuto notizie di loro figlio e vivono nella paura di ritorsioni.
 
Le quattordici infermiere del'ImcInfermiere scomode. Nel febbraio 2004, alcune infermiere ingusce (nella foto) che lavorano nei campi profughi ceceni in Inguscezia per conto della International Medical Corps erano andate a Mosca per motivi di lavoro. All’aeroporto Sheremetevo della capitale russa sono sbiancate dalla paura: sui muri c’era un volantino del ministero dell’Interno russo con le foto segnaletiche di quattordici di loro, indicate come “sospette terroriste”. Nei giorni successivi l’Imc ha saputo che questo volantino era sui muri di molti altri posti in tutta la Russia e su molti siti web ufficiali. In marzo, una di loro è stata arrestata a Mosca con l’accusa di “terrorismo”, e rilasciata solo dopo molte ore. Le quattordici donne erano terrorizzate. Per mesi non sono più uscite dall’Inguscezia. In giugno hanno sporto denuncia ad Amnesty International: questo ha fatto sì che il ministero dell’Interno ritirasse, senza commenti, i volantini e gli annunci.
Ma in settembre, subito dopo i fatti di Beslan, le foto delle quattordici donne non solo sono tornate ad apparire su Internet, ma sono anche state mostrate da varie televisioni e giornali come sospette terroriste coinvolte nel sequestro della scuola.
Le infermiere vivono nella paura, ma non hanno nessuna intenzione di smettere di assistere i profughi ceceni ammassati nelle tendopoli dell’Inguscezia.

Enrico Piovesana

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