Oggi summit tra Ue e Russia. L'indifferenza europea verso i crimini ceceni di Putin
Il nuovo presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e il presidente
russo Vladimir Putin discuteranno di affari e politica, tra sorrisi e strette di mano.
“L’Unione europea – afferma Dick Oosting, direttore di Amnesty a Bruxelles –
non può far finta di nulla, non può ignorare il progressivo deterioramento della
situazione dei diritti umani nella repubblica russa di Cecenia, dove non solo
viene colpita la popolazione civile innocente, ma anche i difensori dei diritti
umani. Questo non può lasciare indifferenti le istituzioni europee, soprattutto
quando questi cittadini subiscono ritorsioni da parte russa per aver osato rivolgersi
alla Corte europea per ottenere giustizia. L’incontro dell’Aja ha lo scopo di
creare uno ‘spazio comune di sicurezza, libertà e giustizia tra Russia e Ue’:
parole vuote finché in Cecenia le forze armate russe continuano impunemente e
sistematicamente a violare i diritti umani della popolazione civile”.
Una vera madre coraggio. La signora Zura Bitieva, un coraggiosa donna cecena del villaggio di Kalinovskaya,
era impegnata nel campo dei diritti umani fin dall’inizio della seconda guerra
cecena, nell’ottobre 1999. Per conto della ong russa Society for Russian-Chechen
Friendship e anche per Amnesty International, Zura raccoglieva informazioni sui
crimini di guerra commessi dall’armata russa. Per questo aveva già pagato un caro
prezzo: all’inizio del 2000, subito dopo la conquista russa della Cecenia, era
stata rinchiusa con suo figlio Idris Iduev nel famigerato campo di concentramento
russo di Chernokozovo, dove era stata picchiata per un mese durante interrogatori
volti a scoprire per chi raccogliesse informazioni. La sua detenzione era finita
in ospedale.
Dopo quella tremenda esperienza Zura ha continuato nel suo lavoro con più decisione
che mai, aiutata da suo marito Ramzan Iduev, che l’ha convinta a sporgere denuncia
alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo.
Per lungo tempo, tranne qualche minaccia, Zura ha pensato che i russi si fossero
dimenticati di lei.
Ma non era così.
Il 21 maggio 2003, quindici soldati delle forze speciali russe sono entrati in
casa sua, immobilizzando lei, suo marito Ramzan, suo figlio Idris e suo fratello
Abubakar. Con del nastro adesivo hanno legato loro mani e piedi e tappato la bocca.
Poi li hanno uccisi con tre colpi di pistola alla nuca per ciascuno. A questa
strage sono sopravvissuti solo la figlia minore di Zura, Luisa Bisieva (nella
foto), che non era in casa, e il suo bambino di un anno, risparmiato dai soldati.
La giovane Luisa, dopo essersi ripresa dallo shock, si è fatta coraggio e ha
portato avanti la causa aperta da sua madre presso la Corte di Strasburgo, informandola
della morte di Zura. Poi si è rivolta anche ad Amnesty International.
Luisa ha continuato e continua ancora a ricevere minacce da parte dei militari
russi: le dicono di lasciar perdere le sue denunce se non vuol finire in prigione
come sua madre per “collaborazionismo con i terroristi”.
Colpevole di essere ceceno. Aslan Davletukaev, un ragazzo ceceno di 29 anni, lavorava anche lui per l’ong
russa Society for Russian-Chechen Friendship, per la quale raccoglieva testimonianze
sulle sparizioni di civili ceceni rapiti dai militari russi.
Intorno alle dieci di sera del 9 gennaio 2004, cinque blindati russi si sono
fermati davanti casa sua, nel villaggio di Avtury. Ne sono scesi una trentina
di soldati russi in mimetica e passamontagna che hanno fatto irruzione nell’abitazione
e hanno preso Aslan, minacciando di uccidere suo figlio di otto anni e sua moglie
se lui avesse fatto resistenza all’arresto. L’anziano padre di Aslan ha chiesto
ai militari quale fosse il crimine commesso da suo figlio, e un ufficiale gli
ha risposto: “E’ colpevole di essere ceceno!”. Il bambino di Aslan è scoppiato
a piangere correndo verso suo padre e cercando di abbracciarlo, ma un soldato
lo ha respinto con un calcio.
Alla fine i soldati sono andati via con Aslan. La famiglia è montata in macchina
e ha seguito i blindati fino alla caserma di Shali, dove si sono fermati.
La mattina dopo sono tornati tutti alla caserma per chiedere notizie di Aslan,
ma i militari si sono rifiutati di dare spiegazioni e li hanno mandati via.
Il 16 gennaio il cadavere di Aslan è stato trovato davanti a un bar abbandonato,
alla periferia di Gudermes. Il suo corpo era martoriato e il suo volto era così
orrendamente sfigurato dai segni delle percosse e delle torture (non aveva più
nemmeno i denti) che i parenti hanno fatto fatica a identificarlo.
La sua famiglia ha sporto subito denuncia, ma il caso è stato archiviato per
“impossibilità di identificare i responsabili”.
Così la moglie e la madre di Aslan (nella foto) hanno sporto denuncia ad Amensty International. E ora, temendo ritorsioni, tutta
la famiglia Davletukaev ha lasciato Avtury e vive nascosta.
L’esperto di computer. Timur Yandiev, un ragazzo inguscio di 25 anni, originario di Karabulak ed esperto
di computer, lavorava a Nazran, capitale inguscia, nello studio del vice-procuratore
Rashid Ozodev, coraggioso magistrato che indagava sugli abusi commessi in Inguscezia
dai servizi segreti russi, Fsb. Timur lo aiutava a raccogliere informazioni via
Internet.
L’11 marzo 2004 il giudice Ozodev è stato rapito da uomini armati non meglio
identificati.
Cinque giorni dopo, la stessa sorte è toccata al giovane Timur.
Stava camminando per la strada quando, secondo testimoni, intorno alle 16:30
due auto bianche senza targa lo hanno affiancato. Ne sono scesi sei uomini in
mimetica e passamontagna, che lo hanno prelevato e portato via.
I genitori di Timur (nella foto) hanno provato per giorni a chiamarlo sul suo cellulare, ma suonava a vuoto.
I primi di aprile si sono rivolti alla polizia inguscia, con l’unico risultato
di sapere che le due auto erano state fermate dalla polizia inguscia vicino alla
frontiera cecena e che sicuramente appartenevano alle forze federali stazionate
in Cecenia.
Così hanno deciso di sporgere denuncia ad Amnesty International.
Da allora non hanno più avuto notizie di loro figlio e vivono nella paura di
ritorsioni.
Infermiere scomode. Nel febbraio 2004, alcune infermiere ingusce (nella foto) che lavorano nei campi profughi ceceni in Inguscezia per conto della International Medical Corps erano andate a Mosca per motivi di lavoro. All’aeroporto Sheremetevo della capitale
russa sono sbiancate dalla paura: sui muri c’era un volantino del ministero dell’Interno
russo con le foto segnaletiche di quattordici di loro, indicate come “sospette
terroriste”. Nei giorni successivi l’Imc ha saputo che questo volantino era sui
muri di molti altri posti in tutta la Russia e su molti siti web ufficiali. In
marzo, una di loro è stata arrestata a Mosca con l’accusa di “terrorismo”, e rilasciata
solo dopo molte ore. Le quattordici donne erano terrorizzate. Per mesi non sono
più uscite dall’Inguscezia. In giugno hanno sporto denuncia ad Amnesty International:
questo ha fatto sì che il ministero dell’Interno ritirasse, senza commenti, i
volantini e gli annunci.
Ma in settembre, subito dopo i fatti di Beslan, le foto delle quattordici donne
non solo sono tornate ad apparire su Internet, ma sono anche state mostrate da
varie televisioni e giornali come sospette terroriste coinvolte nel sequestro
della scuola.
Le infermiere vivono nella paura, ma non hanno nessuna intenzione di smettere
di assistere i profughi ceceni ammassati nelle tendopoli dell’Inguscezia.