Il racconto del viaggio di Vauro, dall'Afghanistan dove la guerra non è mai finita
dal nostro inviato
Vauro
Kabul, 8
luglio 2006. “Ogni
giorno la situazione si fa più tesa, solo qualche mese fa potevate vedere
stranieri, militari o civili, in giro per la città, ne vedete qualcuno oggi?”.
Ci chiede retoricamente Jamal, giovane, occhiali scuri, vestito all’occidentale.
Stranieri. Jamal ci accompagna come interprete in un giro per Kabul. Dai finestrini
dell’auto scorrono immagini di movimento caotico: auto, carretti ed essere
umani che si arrabbattano in piccoli commerci sui marciapiedi o in botteghe
addossate l’una all’altra in una sequenza di merci povere. Dai copertoni ai
recipienti di plastica usati. Jamal parla di voci che si rincorrono, decine di
attentatori suicidi si sarebbero infiltrati in città. Attentatori o meno per un
occidentale non è consigliabile fermarsi in uno stesso luogo per più di qualche
minuto, specialmente se affollato. “Molta gente è priva di educazione – Jamal
lo dice quasi a volersi differenziare dai suoi concittadini – non distingue tra
straniero e straniero, militare o giornalista per loro ormai sono tutti nemici
e basta niente a fare apparire un coltello o far saltare una bomba, ce ne sono
probabilmente diverse disseminate e nascoste tra i mucchi di immondizia che si
accumulano ai lati delle strade, già pronte per esplodere al passaggio di un
convoglio militare o di qualsiasi altro obiettivo ritenuto degno di
considerazione e, per molti, anche un solo occidentale lo è”. Fermi ad un
angolo di strada il vecchio con turbante e folta barba bianca che ci raggiunge
sicuramente ci ha riconosciuti come giornalisti: “Vi voglio parlare di Karzai,
ascoltatemi – ci apostrofa irruente in un inglese stentato – non fa niente per
il popolo afghano come non faceva niente il re Zahir Sha, ha solo riportato qui
gli inglesi e gli altri stranieri. Il vecchio è particolarmente arrabbiato con
gli inglesi: “Il peggior popolo del mondo”. Nella sua memoria tramandatagli dal
padre se non addirittura dal nonno gli occupanti inglesi del 1841 sono un
tutt’uno con le truppe straniere di oggi, soggetti di un odio antico che i
successivi tentativi di occupazione dell’Afghanistan hanno tenuto vivo ed
alimentato.
Do not stay here. Il convoglio blindato che sopraggiunge rombando non ha i colori
inglesi sulle fiancate dei mezzi d’acciaio, sul primo e sull’ultimo c’è dipinto
il tricolore italiano, su quello centrale la scritta “Us Army”. Il convoglio si
ferma quando ci vede, il vecchio è scomparso, un ufficiale degli alpini salta
giù dal carro: “ do not stay here!”. Ci grida
facendoci segno di andarcene. Quando
scopre che siamo italiani come lui non c’è tempo per convenevoli tra
connazionali, il convoglio ha fretta di rimettersi in movimento, lo dicono i
volti tesi sotto gli elmetti degli alpini aggrappati alle mitragliatrici
pesanti montate sui blindati. Anche
Jamal ha fretta che ce ne andiamo: “Vi hanno visto parlare con i militari è
pericoloso restare qui”. Con
l’auto saliamo su per la strada sterrata e pietrosa che si arrampica sulle
montagne brulle che circondano Kabul in
un anello di rocce e di casupole di fango dello stesso colore della polvere. Le
casupole
sembrano stare in bilico sulle pareti ripide della montagna, è questa una delle
aree più povere della poverissima Kabul, qui non arriva l’acqua nè la pur
scarsa elettricità che viene erogata alla città, le fogne sono maleodoranti
canaletti scavati a cielo aperto, i liquami scuri scorrono tra una catapecchia
e l’altra trasformando in fanghiglia la
polvere secca.
Aiuti umanitari. Nesser
Ahmad ha il viso magro e scuro segnato da rughe, sembra un vecchio ma è
difficile sapere se lo è veramente, quasi nessuno qui, impegnati come sono
tutti a sopravvivere giorno per giorno, dà un senso al calcolo dell’età, nemmeno
della propria. Nesser
ha sette figli alcuni sono ancora dei bambini, due, i più grandi lo stanno
aiutando a costruire la sua casupola sasso su sasso: “Dobbiamo pagare tutto,
l’acqua per la calce, le pietre stesse -racconta Nesser- io sono l’unico che ha
un lavoro, faccio il giardiniere e guadagno duemila Afgani al mese (circa
40 dollari) per la stanza dove abitavo
con la mia famigla in città dovevo pagare un affitto di 1500 Afgani al mese ,
era
impossibile vivere con ciò che restava, per questo ora tento di costruirmi una
abitazione qui”. Nesser
non ha nulla contro le truppe straniere: “Vogliamo solo la pace”, dice anche se probabilmente non ne ha mai avuto
esperienza. “Speriamo che gli stranieri ci portino degli aiuti”, ma quando gli
chiediamo se lui questi aiuti li ha mai visti si mette a ridere: “Soldi ne sono
arrivati molti e chi era già ricco è diventato straricco ma di sicuro per la
povera gente come me non è cambiato
nulla”. Ma
Nesser sta meglio o peggio di prima? “ Solo Allah sa se staremo meglio o
peggio”, dice sorridendo e allargando le braccia. Surreale
in questo paesaggio di miseria passa, alzando una nube di polvere un’auto
bianca di lusso, coi vetri oscurati, di
scorta la segue un pick-up con sul cassone contractors armati sino ai denti. Forse
uno dei destinatari degli aiuti umanitari.