scritto per noi da
Paolo Romano
Sono iniziati lo scorso luglio e sono ripresi in questi giorni a
Manhasset, New York, i negoziati bilaterali tra Marocco e Fronte
Polisario per tentare una mediazione nella ormai ultratrentennale
questione del Sahara Occidentale.

E’ la prima volta, dopo sette
anni, che le parti siedono allo stesso tavolo (come auspicato non
solo dall’allora Segretario Generale Onu Kofi Annan, ma anche
dall’attuale Bank Hi Moon), ma la sensazione generale è che
tali colloqui finora non stiano portando a nulla di costruttivo,
mentre la stanchezza e lo scetticismo dei saharawi divisi tra
territorio marocchino, territori liberati intorno a Tifariti e
rifugiati nei campi profughi intorno a Tindouf in Algeria stiano
montando esponenzialmente. L’attuale progetto di autonomia
presentato dal Marocco, indisponibile ad ogni eventuale ulteriore
soluzione, trova un muro nella rappresentanza del Polisario che
rilancia il proprio diritto ad autodeterminarsi attraverso un
referendum, già deliberato dalle tante risoluzione del Palazzo
di Vetro e che, tra l’altro, da 17 anni costa alla comunità
internazionale il mantenimento della missione Minurso inviata al fine
di monitorare la regolarità dello svolgimento della pronuncia
popolare.
A Manhasset il clima è rigido e sideralmente lontano dal caldo
che inizia a farsi soffocante nell’
hammada (l’inferno
desertico algerino nel quale sono ospitati i campi profughi saharawi
nei pressi di Tindouf) a Smara come a Dhakla e che in poche settimane
inizierà a toccare i 60 gradi, costringendo i più
piccoli a lasciare i genitori alla volta delle tante associazioni e
famiglie – soprattutto spagnole ed italiane – che li ospiteranno
d’estate per evitare una morte pressochè certa. Abbiamo
parlato con Tacher, è un giovane medico anestesista di 27
anni, tra i primi nati nei campi. Ha studiato a Cuba, la brillantezza
negli studi gli ha consentito di proseguire con le borse di studio
messe a disposizione e, proprio nel momento di poter proseguire il
proprio lavoro nell’ospedale di Trinidad, ha scelto il ritorno nel
campo di Rabouni.

“Qui mi sembra di essere più utile. E’
la mia gente e ha bisogno di professionalità mediche” –
ci ha raccontato “Certo alcune volte la frustrazione per la
mancanza totale di strutture minimamente adeguata fa venire la voglia
di arrendersi, ma credo che ridare, quando è possibile, una
speranza di vita ad un bambino o ad una giovane puerpera possa valere
più che trovare un fiore in questo deserto”. Già,
perché nei campi la mortalità infantile è
altissima e sono le patologie più banali a provocare il
maggior numero di vittime: bronchiti, complicazioni dell’apparato
respiratorio, piccole infezioni ed infiammazioni, malattie
stomatologiche e gastroenteriti causati dalla diffusa e coatta
malnutrizione. Questo solo quando è possibile arrivare ad un
parto, perché la completa assenza di locali sterili, strumenti
di ostetricia pur banali e professionalità adeguate causano
moltissime morti per parto e, naturalmente, in assenza di camere
operatorie bisogna tentare la sorte ed attendere che a Tindouf si
liberi un posto letto; sempre che non ci sia un’urgenza: in questo
caso l’unica ambulanza (poco più che una jeep con quasi 400
mila chilometri di vita) non ha i fari da più di tre anni e
gli spostamenti notturni sono impossibili.
Tacher ha unito il proprio talento alla fortuna di poter studiare
all’università; qualcun altro riesce ad andare ad Algeri, ma
il sistema scolastico è ancora piuttosto arretrato e a fronte
di intelligenze vivissime – come ci ha raccontato un insegnante
locale di spagnolo – è pressochè impossibile poter
contare su una frequenza scolastica regolare tenuto peraltro conto
del fatto che gli insegnanti sono pochi e quasi tutti volontari; si
impegnano a trasmettere i rudimenti di arabo, spagnolo, storia e
matematica fino ai 16 anni, dopodichè si apre una stagione
sine die fatta di lavoretti in qualche rudimentale attività
commerciale o in qualche officina meccanica per auto, con un qualche
ritorno stagionale (gli uomini) nei pressi di Tifariti e nei
territori occupati per servire nelle fila del Polisario.

La sensazione che abbiamo potuto registrare nelle
wilaya
(villagi con estensione assai ampia con circa 80.000 profughi divisi
in circoscrizioni minori, le
dahire) di Smara e di Dhakla è
quella di un cambio di umore avvenuto nel corso dell’ultimo anno,
perché se seduti nelle nostre poltrone può sembrarci
che un anno di permanenza in più o in meno in quell’inferno
sia affar da poco conto, la gente saharawi che in quell’inferno
quotidianamente vive appare sempre più stanca e sempre più
intenzionata a trovare una qualunque soluzione pur di poter tornare
nella propria terra, dove trent’anni fa hanno salutato le famiglie
credendo di poter rientrare nel giro di pochi mesi.
L’anno scorso avevamo salutato Bubap, un ragazzino di 15 anni, che
raccontava tutte le meraviglie viste in Spagna d’estate, la
televisione, i nomi degli sportivi famosi, la sua passione per le
motociclette ed ascoltava avido e con occhi concentratissimi e vivi
ogni nostro piccolo racconto. Fumava di nascosto le American
Legend, le sigarette di infima qualità che di tanto in
tanto arrivano nei campi attraverso la Mauritania, e me le offriva
soddisfatto delle nostre chiacchierate notturne.
Quest’anno il ragazzino, a 16 anni, s’è fatto “uomo”,
ha abbandonato la scuola perché “el colegio es mierda”,
gli occhi vivi sono rimasti ma l’espressione è seria e gela
una frase che arriva nel bel mezzo di una cena di cous cous che sua
zia Gandila ha preparato in onore del nostro ritorno, dice Bubap
“adesso voglio la guerra, perché è l’unico modo
di tornare a casa mia (lui che pure è nato e cresciuto nei
campi, ndr), questa è la verità: meglio morto in
guerra che vivo nei campi profughi”. Ci racconta di parlarne
spesso con i suoi amici che, come lui, lavorano in un’officina che
ripara radiatori e con i quali ogni settimana affronta ore di viaggio
per arrivare a lavoro. E anche questo segno ha fatto volare lontano
il nostro sguardo dal cielo inondato di stelle sotto il deserto alle
nuvole che assediano Manhassett e i suoi ospiti diplomatici.

La posta in gioco, sia chiaro, non è da poco. Il territorio
del Sahara Occidentale, come è noto, è uno dei più
ricchi di fosfati, mentre la pescosità del mare garantisce il
commercio in tutta l’area non solo maghrebina ma anche
mediterranea. Il pessimo processo di decolonizzazione avvenuto in
quell’angolo dimenticato di mondo ha portato all’occupazione
marocchina anche della porzione di territorio precedentemente invasa
dalla Mauritania, la quale ebbe poi a riconoscere il diritto dei
Saharawi di tornare nel loro territorio.
Quello, però, che per ora bisogna ricordare è che la
questione dei saharawi è intanto una questione di emergenza
umanitaria che impegna in prima fila Unhcr, Croce Rossa e centinaia
di associazioni e onlus nel mondo. Come tutte le emergenze umanitarie
occorre far presto e fare leva sulla forza della ragione delle
principali potenze europee (la Camera dei deputati italiana ha
approvato lo scorso dicembre una importante mozione in tal senso)
perché si arrivi rapidamente ad una soluzione concordata sotto
l’egida delle Nazioni Unite.
Un proverbio saharawi recita che “quattro dita separano verità
da menzogna”, sono le dita della nostra mano che seprano la
bocca dall’orecchio, quello di cui si parla da quello di cui si
vede. Qua l’abbiamo raccontato, ma quello che abbiamo visto non è
sicuramente un futuro rassicurante né sereno.