19/03/2008versione stampabilestampainvia paginainvia



Ancora senza esito il negoziato tra Marocco e Fronte Polisario
scritto per noi da
Paolo Romano
 
Sono iniziati lo scorso luglio e sono ripresi in questi giorni a Manhasset, New York, i negoziati bilaterali tra Marocco e Fronte Polisario per tentare una mediazione nella ormai ultratrentennale questione del Sahara Occidentale.
 
E’ la prima volta, dopo sette anni, che le parti siedono allo stesso tavolo (come auspicato non solo dall’allora Segretario Generale Onu Kofi Annan, ma anche dall’attuale Bank Hi Moon), ma la sensazione generale è che tali colloqui finora non stiano portando a nulla di costruttivo, mentre la stanchezza e lo scetticismo dei saharawi divisi tra territorio marocchino, territori liberati intorno a Tifariti e rifugiati nei campi profughi intorno a Tindouf in Algeria stiano montando esponenzialmente. L’attuale progetto di autonomia presentato dal Marocco, indisponibile ad ogni eventuale ulteriore soluzione, trova un muro nella rappresentanza del Polisario che rilancia il proprio diritto ad autodeterminarsi attraverso un referendum, già deliberato dalle tante risoluzione del Palazzo di Vetro e che, tra l’altro, da 17 anni costa alla comunità internazionale il mantenimento della missione Minurso inviata al fine di monitorare la regolarità dello svolgimento della pronuncia popolare.

A Manhasset il clima è rigido e sideralmente lontano dal caldo che inizia a farsi soffocante nell’hammada (l’inferno desertico algerino nel quale sono ospitati i campi profughi saharawi nei pressi di Tindouf) a Smara come a Dhakla e che in poche settimane inizierà a toccare i 60 gradi, costringendo i più piccoli a lasciare i genitori alla volta delle tante associazioni e famiglie – soprattutto spagnole ed italiane – che li ospiteranno d’estate per evitare una morte pressochè certa. Abbiamo parlato con Tacher, è un giovane medico anestesista di 27 anni, tra i primi nati nei campi. Ha studiato a Cuba, la brillantezza negli studi gli ha consentito di proseguire con le borse di studio messe a disposizione e, proprio nel momento di poter proseguire il proprio lavoro nell’ospedale di Trinidad, ha scelto il ritorno nel campo di Rabouni.

“Qui mi sembra di essere più utile. E’ la mia gente e ha bisogno di professionalità mediche” – ci ha raccontato “Certo alcune volte la frustrazione per la mancanza totale di strutture minimamente adeguata fa venire la voglia di arrendersi, ma credo che ridare, quando è possibile, una speranza di vita ad un bambino o ad una giovane puerpera possa valere più che trovare un fiore in questo deserto”. Già, perché nei campi la mortalità infantile è altissima e sono le patologie più banali a provocare il maggior numero di vittime: bronchiti, complicazioni dell’apparato respiratorio, piccole infezioni ed infiammazioni, malattie stomatologiche e gastroenteriti causati dalla diffusa e coatta malnutrizione. Questo solo quando è possibile arrivare ad un parto, perché la completa assenza di locali sterili, strumenti di ostetricia pur banali e professionalità adeguate causano moltissime morti per parto e, naturalmente, in assenza di camere operatorie bisogna tentare la sorte ed attendere che a Tindouf si liberi un posto letto; sempre che non ci sia un’urgenza: in questo caso l’unica ambulanza (poco più che una jeep con quasi 400 mila chilometri di vita) non ha i fari da più di tre anni e gli spostamenti notturni sono impossibili.
 
Tacher ha unito il proprio talento alla fortuna di poter studiare all’università; qualcun altro riesce ad andare ad Algeri, ma il sistema scolastico è ancora piuttosto arretrato e a fronte di intelligenze vivissime – come ci ha raccontato un insegnante locale di spagnolo – è pressochè impossibile poter contare su una frequenza scolastica regolare tenuto peraltro conto del fatto che gli insegnanti sono pochi e quasi tutti volontari; si impegnano a trasmettere i rudimenti di arabo, spagnolo, storia e matematica fino ai 16 anni, dopodichè si apre una stagione sine die fatta di lavoretti in qualche rudimentale attività commerciale o in qualche officina meccanica per auto, con un qualche ritorno stagionale (gli uomini) nei pressi di Tifariti e nei territori occupati per servire nelle fila del Polisario.

La sensazione che abbiamo potuto registrare nelle wilaya (villagi con estensione assai ampia con circa 80.000 profughi divisi in circoscrizioni minori, le dahire) di Smara e di Dhakla è quella di un cambio di umore avvenuto nel corso dell’ultimo anno, perché se seduti nelle nostre poltrone può sembrarci che un anno di permanenza in più o in meno in quell’inferno sia affar da poco conto, la gente saharawi che in quell’inferno quotidianamente vive appare sempre più stanca e sempre più intenzionata a trovare una qualunque soluzione pur di poter tornare nella propria terra, dove trent’anni fa hanno salutato le famiglie credendo di poter rientrare nel giro di pochi mesi.
L’anno scorso avevamo salutato Bubap, un ragazzino di 15 anni, che raccontava tutte le meraviglie viste in Spagna d’estate, la televisione, i nomi degli sportivi famosi, la sua passione per le motociclette ed ascoltava avido e con occhi concentratissimi e vivi ogni nostro piccolo racconto. Fumava di nascosto le American Legend, le sigarette di infima qualità che di tanto in tanto arrivano nei campi attraverso la Mauritania, e me le offriva soddisfatto delle nostre chiacchierate notturne.

Quest’anno il ragazzino, a 16 anni, s’è fatto “uomo”, ha abbandonato la scuola perché “el colegio es mierda”, gli occhi vivi sono rimasti ma l’espressione è seria e gela una frase che arriva nel bel mezzo di una cena di cous cous che sua zia Gandila ha preparato in onore del nostro ritorno, dice Bubap “adesso voglio la guerra, perché è l’unico modo di tornare a casa mia (lui che pure è nato e cresciuto nei campi, ndr), questa è la verità: meglio morto in guerra che vivo nei campi profughi”. Ci racconta di parlarne spesso con i suoi amici che, come lui, lavorano in un’officina che ripara radiatori e con i quali ogni settimana affronta ore di viaggio per arrivare a lavoro. E anche questo segno ha fatto volare lontano il nostro sguardo dal cielo inondato di stelle sotto il deserto alle nuvole che assediano Manhassett e i suoi ospiti diplomatici.

La posta in gioco, sia chiaro, non è da poco. Il territorio del Sahara Occidentale, come è noto, è uno dei più ricchi di fosfati, mentre la pescosità del mare garantisce il commercio in tutta l’area non solo maghrebina ma anche mediterranea. Il pessimo processo di decolonizzazione avvenuto in quell’angolo dimenticato di mondo ha portato all’occupazione marocchina anche della porzione di territorio precedentemente invasa dalla Mauritania, la quale ebbe poi a riconoscere il diritto dei Saharawi di tornare nel loro territorio.
Quello, però, che per ora bisogna ricordare è che la questione dei saharawi è intanto una questione di emergenza umanitaria che impegna in prima fila Unhcr, Croce Rossa e centinaia di associazioni e onlus nel mondo. Come tutte le emergenze umanitarie occorre far presto e fare leva sulla forza della ragione delle principali potenze europee (la Camera dei deputati italiana ha approvato lo scorso dicembre una importante mozione in tal senso) perché si arrivi rapidamente ad una soluzione concordata sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Un proverbio saharawi recita che “quattro dita separano verità da menzogna”, sono le dita della nostra mano che seprano la bocca dall’orecchio, quello di cui si parla da quello di cui si vede. Qua l’abbiamo raccontato, ma quello che abbiamo visto non è sicuramente un futuro rassicurante né sereno.
Categoria: Guerra, Muri
Luogo: Sahara Occidentale
Articoli correlati: La scheda paese: Gli argomenti più discussi: Le parole chiave più ricorrenti: