17/12/2010versione stampabilestampainvia paginainvia



La morte di un poliziotto sunnita, sacrificatosi per salvare migliaia di sciiti, diventa un'icona di stato

Fin dalla nascita degli stati nazione si è reso necessario un mito fondante, un elenco di martiri e di eroi, materializzata in una galleria di icone e monumenti. Disseminati sui territori, come i grani di un rosario, per tenere vivo il rito pagano della retorica patriottica.

Quasi nessun Paese ne è immune, a ciascuno il suo Pietro Micca. Ma dietro nomi (e monumenti) ci sono storie e persone. E' il caso di Bilal Alì Mohammed, 31 anni, poliziotto iracheno. Sunnita, di Balad Ruz, con il suo stipendio manteneva la madre vedova, le tre sorelle e il fratello, cui pagava gli studi. Una paga da fame, per il mestiere più rischioso del mondo. Dal 2003, anno dell'invasione dell'Iraq da parte di una coalizione internazionale guidata dagli Usa, sono migliaia gli agenti di polizia uccisi. Spesso prima ancora di diventarlo, magari in fila davanti a un centro di reclutamento. Per i miliziani che hanno combattuto gli stranieri prima e il governo iracheno adesso sono i peggiori, i collaborazionisti di un potere senza alcuna legittimità. Sempre al centro di polemiche, accusati di corruzione e negligenza, male armati. Hanno ereditato - dopo l'inizio della nuova strategia Usa in Iraq - il lavoro sporco dai marines. Questi ultimi chiusi nelle mastodontiche basi militari, loro in pattugliamento per strada, di guardia ai check-point.

Oppure, come nel caso di Mohammed, di guardia ai luoghi di culto. Nel 2003, infatti, è crollato il vecchio 'mito' fondante dell'Iraq. Il regime di Saddam, con la forza, aveva impostato una retorica nazionale tutta basata sull'unità e la fratellanza, dove le comunità che compongono il mosaico della Mesopotamia (sunniti, sciiti, curdi, ebrei, cristiani e altri) vivevano assieme, senza distinzioni etniche e religiose. Non è andata così, nel senso che Saddam guidava il Paese anche in nome della minoranza sunnita della quale era lui stesso esponente. Il 2003 ha segnato, nel giro di pochi anni, l'inizio di una sanguinosa guerra civile tra sunniti e sciiti. Centinaia di migliaia di vittime, squadroni della morte dell'una e dell'altra confessione, spesso all'interno delle stesse forze armate e di polizia. Il governo iracheno attuale, da mesi, tenta di ricostruire un'identità condivisa nel Paese. Aiutato, per altro, da società di comunicazione Usa profumatamente ricompensate.

Ecco che Mohammed, suo malgrado, deve vestirsi da eroe. Lunedì 13 dicembre, primo pomeriggio. A Mohammed è toccato un turno duro: vigilare all'ingresso di una moschea sciita di Baquba, nell'Iraq. L'occasione è di quelle che, dal 2003, comporta sangue e violenze. Si celebra l'Ashura, una delle feste più sacre per gli sciiti, in onore dell'imam Hussein, morto nella battaglia di Kerbala nel 680 D.C. I miliziani sunniti hanno sempre realizzato attacchi feroci contro i pellegrini sciiti, che arrivano nei luoghi di culto da tutto il Paese e dall'estero. I colleghi hanno raccontato alla stampa locale che Mohammed nota un uomo sospetto, che stringe una borsa in modo strano. Lui lo affronta, vede i fili che spuntano dalla sacca. Urla a tutti di scappare e di allontanarsi, mentre lui si butta sull'attentantore. L'ordigno esplode. Mohammed muore sul colpo, assieme al kamikaze e a una donna con la sua nipotina, troppo vicine alla detonazione. Secondo i colleghi Mohammed ha salvato centinaia di persone che affollavano la moschea.

Il governo ne ha voluto subito fare un simbolo della nuova era di riconciliazione che - ne sono sicuri - aspetta il nuovo Iraq, costruito su un milione di morti. Giornali, telegiornali, radio, televisioni. La foto di Mohammed è ovunque, spesso tenuta dalla madre e dalle sorelle. Le immagini del giorno del suo funerale - trasmesso in diretta - hanno raccontato di centinaia di persone che son andate a Balad Ruz a rendere omaggio all'eroe dell'epoca nuova. Al nuovo - vecchio - iracheno. Il governo, in poche ore, ha deliberato di erigere una statua al coraggioso poliziotto a Baghdad e nel suo villaggio natale. Quando qualcuno, in futuro, vedrà la statua di Mohammed senza capire di chi si tratta, forse, l'Iraq sarà tornato alla normalità. Quella che non ha bisogno di eroi, ma solo di persone come mille altre che fanno il loro lavoro con coscienza.

Christian Elia

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