Oggi, l'Unione Nazionale dei
Giornalisti Somali ha rivolto al nuovo premier, Nur Adde, un appello
perché tuteli l'attività dei reporter somali.
Dall'inizio dell'anno, sono otto i giornalisti somali uccisi mentre
svolgevano il loro lavoro. Un numero che, secondo i dati di Reporter
Senza Frontiere, fa della Somalia il secondo Paese più
pericoloso al mondo per i giornalisti, dopo l'Iraq. E per gli otto
che sono morti, decine di altri sono dovuti fuggire a causa delle
minacce, mentre emittenti radiofoniche e testate vengono periodicamente chiuse
dalle autorità. PeaceReporter pubblica le testimonianze di tre giornalisti
somali, contattati durante un reportage del nostro inviato in Kenya e
Somalia.
Nairobi, 15 agosto. Il giornalista
Sahal Abdulle sorseggia lentamente un tè alla cannella nel Mug
Cafè, un locale aperto di recente nel centro di Nairobi,
frequentato in maggioranza da somali. Con ancora una vistosa
fasciatura sul viso e i cerotti che coprono due profonde ferite sul
collo provocate dalle schegge di una bomba, Sahal non fa una piega
nonostante il dolore sia insopportabile. Per lui, scampato pochi
giorni prima a un'autobomba nel centro di Mogadiscio, il solo fatto
di essere qui a Nairobi, vivo, è un grande risultato.

Quattro giorni prima, Sahal era in
macchina con altri tre colleghi per le strade di Mogadiscio. Stava
tornando dal funerale di un collega, Mahad Elmi, un giornalista
radiofonico ucciso la mattina stessa davanti a casa, con un colpo di
pistola. Un'esecuzione in piena regola. “All'improvviso, ho visto
un lampo alla mia destra, accecante, e subito dopo ho sentito un boato”,
racconta mentre le sue mani ancora tremanti lottano per non far
rovesciare la tazza di tè. “Dopo pochi secondi, mi sono ritrovato
fuori strada, con un occhio coperto di sangue. Appena mi sono
guardato attorno, ho visto che Ali era morto”.
Ali Sharmarke era un altro giornalista
somalo, collega di Elmi presso l'emittente HornAfrik, da tempo
in pericolo di vita per le inchieste scomode che conduceva. La bomba
esplosa al passaggio dell'auto era destinata proprio a lui. “Sono
stato uno stupido”, continua Sahal, con gli occhi velati dalle
lacrime per la morte di uno dei suoi migliori amici. “Ogni volta
che uscivo per le strade di Mogadiscio usavo mille precauzioni,
quella è stata l'unica volta che non ho fatto attenzione.
Perché sapevo che Ali era stato preso di mira”.
Dall'inizio dell'anno, sono otto i
giornalisti somali uccisi mentre svolgevano il loro lavoro, mentre
decine di altri sono finiti in carcere o sono dovuti fuggire a causa
delle minacce ricevute.
Abukar Albadri, che lavora per il Los
Angeles Times e il Chicago Tribune, è uno tra
questi. “Poco dopo la morte di Sharmarke, ho cominciato a ricevere
in media otto telefonate al giorno, in cui si annunciava la mia
morte”, racconta telefonicamente da Gibuti, dove ha trovato rifugio
assieme alla famiglia. “Mi dicevano che sarei stato punito per
quello che scrivevo, e che non meritavo di vivere. Non potevo fare
altro che andarmene”.
Ma la cosa più preoccupante è
che i giornalisti non sanno neanche da dove arrivi la minaccia. Dai
rappresentanti del governo di transizione, che non amano che si parli
di Mogadiscio come di un inferno messo a ferro e fuoco
quotidianamente dagli scontri tra esercito e insorti? O dagli insorti
stessi, che vogliono mettere a tacere per sempre delle voci scomode?
“Sei preso tra due fuochi, e non puoi fare niente perché non
sai da quale parte potrebbe arrivare il colpo”, prosegue sconsolato
Abukar.

“All'inizio, abituarsi al clima della
città è molto pesante, ma dopo un po' ci fai
l'abitudine”, dice con un largo sorriso Guled Mohammed, mentre fa
zapping distrattamente tra i canali della tv satellitare, assieme al
computer l'unico segno di modernità nella sua abitazione a
Mogadiscio. “Bisogna seguire alcune regole base, tra le quali non
tornare mai a casa seguendo lo stesso percorso, per non dare punti di
riferimento. E, quando si esce per lavorare, telefonare sempre per
sapere se nel posto dove devi andare ci sono scontri, o se nel
tragitto c'è qualche posto di blocco della polizia”. Guled
lavora per la
Reuters, e sta addestrando due nuovi reporter
che lo sostituiscano nelle prossime settimane che trascorrerà
in Kenya, in attesa che le acque si calmino.
Per i giornalisti stranieri inviati a
Mogadiscio, la situazione è molto diversa: pagando 500 dollari
al giorno, ci si garantisce un ottimo albergo, una macchina da
affittare e una scorta armata. Il prezzo è molto alto, ma non
trattabile. Non pagare significa andare incontro a una morte certa.
Ma mentre per gli stranieri trascorrere una settimana a Mogadiscio
per raccogliere storie è relativamente semplice e in parte
elettrizzante, per i somali è tutta un'altra faccenda.
I giornalisti locali rischiano da 17
anni la vita per raccontare al mondo una guerra civile che ha
devastato questa città, un tempo incantevole, facendo più
di mezzo milione di morti e almeno un milione di sfollati. Costretti
a non potersi fidare di nessuno, a limitare allo stretto necessario i
propri spostamenti, a non fermarsi più di dieci minuti nello
stesso posto per non dare nell'occhio, i reporter somali sacrificano
la propria vita quotidiana sull'altare del lavoro. Solo nell'ultimo
anno, Abukar è stato minacciato di morte da un miliziano che
gli ha puntato una pistola alla tempia, accerchiato da una folla
urlante che lo voleva linciare perché lo credeva una spia
degli etiopi (che controllano la città dallo scorso dicembre),
arrestato dagli agenti governativi che l'avevano attirato fuori di
casa con un tranello, annunciandogli che il primo ministro voleva
concedergli un'intervista.

Alla fine del racconto, Sahal è
provato. Gli ultimi giorni sono stati un inferno, tra telefonate dei
familiari e dei colleghi, che si felicitavano per lo scampato
pericolo, e le testate internazionali che l'hanno contattato per
sentire la sua storia. “E' strano. Dopo vent'anni di carriera, una
volta tanto sono io l'intervistato, la persona 'famosa'”, scherza,
mentre sul viso gli si stampa un sorriso che solo un uomo che ha
visto la morte in faccia può avere. Sahal ora andrà a
Toronto, in Canada, per trovare la famiglia e riposarsi qualche mese.
Nonostante i rischi, non mette neanche in conto di abbandonare per
sempre Mogadiscio. “Non posso lasciare quella città baciata
dal sole, quel mare blu, quel verde... E poi, se non ci prendiamo noi
la briga di raccontare cosa succede là, chi lo farà?”.