23/11/2007versione stampabilestampainvia paginainvia



Il calvario dei giornalisti somali raccontato a PeaceReporter
Oggi, l'Unione Nazionale dei Giornalisti Somali ha rivolto al nuovo premier, Nur Adde, un appello perché tuteli l'attività dei reporter somali. Dall'inizio dell'anno, sono otto i giornalisti somali uccisi mentre svolgevano il loro lavoro. Un numero che, secondo i dati di Reporter Senza Frontiere, fa della Somalia il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, dopo l'Iraq. E per gli otto che sono morti, decine di altri sono dovuti fuggire a causa delle minacce, mentre emittenti radiofoniche e testate vengono periodicamente chiuse dalle autorità. PeaceReporter pubblica le testimonianze di tre giornalisti somali, contattati durante un reportage del nostro inviato in Kenya e Somalia.

Nairobi, 15 agosto. Il giornalista Sahal Abdulle sorseggia lentamente un tè alla cannella nel Mug Cafè, un locale aperto di recente nel centro di Nairobi, frequentato in maggioranza da somali. Con ancora una vistosa fasciatura sul viso e i cerotti che coprono due profonde ferite sul collo provocate dalle schegge di una bomba, Sahal non fa una piega nonostante il dolore sia insopportabile. Per lui, scampato pochi giorni prima a un'autobomba nel centro di Mogadiscio, il solo fatto di essere qui a Nairobi, vivo, è un grande risultato.

Il cadavere di Mahad Elmi avvolto da un lenzuoloQuattro giorni prima, Sahal era in macchina con altri tre colleghi per le strade di Mogadiscio. Stava tornando dal funerale di un collega, Mahad Elmi, un giornalista radiofonico ucciso la mattina stessa davanti a casa, con un colpo di pistola. Un'esecuzione in piena regola. “All'improvviso, ho visto un lampo alla mia destra, accecante, e subito dopo ho sentito un boato”, racconta mentre le sue mani ancora tremanti lottano per non far rovesciare la tazza di tè. “Dopo pochi secondi, mi sono ritrovato fuori strada, con un occhio coperto di sangue. Appena mi sono guardato attorno, ho visto che Ali era morto”.
Ali Sharmarke era un altro giornalista somalo, collega di Elmi presso l'emittente HornAfrik, da tempo in pericolo di vita per le inchieste scomode che conduceva. La bomba esplosa al passaggio dell'auto era destinata proprio a lui. “Sono stato uno stupido”, continua Sahal, con gli occhi velati dalle lacrime per la morte di uno dei suoi migliori amici. “Ogni volta che uscivo per le strade di Mogadiscio usavo mille precauzioni, quella è stata l'unica volta che non ho fatto attenzione. Perché sapevo che Ali era stato preso di mira”.

Dall'inizio dell'anno, sono otto i giornalisti somali uccisi mentre svolgevano il loro lavoro, mentre decine di altri sono finiti in carcere o sono dovuti fuggire a causa delle minacce ricevute.
Abukar Albadri, che lavora per il Los Angeles Times e il Chicago Tribune, è uno tra questi. “Poco dopo la morte di Sharmarke, ho cominciato a ricevere in media otto telefonate al giorno, in cui si annunciava la mia morte”, racconta telefonicamente da Gibuti, dove ha trovato rifugio assieme alla famiglia. “Mi dicevano che sarei stato punito per quello che scrivevo, e che non meritavo di vivere. Non potevo fare altro che andarmene”.
Ma la cosa più preoccupante è che i giornalisti non sanno neanche da dove arrivi la minaccia. Dai rappresentanti del governo di transizione, che non amano che si parli di Mogadiscio come di un inferno messo a ferro e fuoco quotidianamente dagli scontri tra esercito e insorti? O dagli insorti stessi, che vogliono mettere a tacere per sempre delle voci scomode? “Sei preso tra due fuochi, e non puoi fare niente perché non sai da quale parte potrebbe arrivare il colpo”, prosegue sconsolato Abukar.

Ali Sharmarke (a sinistra) in una foto di pochi giorni prima dell'attentato“All'inizio, abituarsi al clima della città è molto pesante, ma dopo un po' ci fai l'abitudine”, dice con un largo sorriso Guled Mohammed, mentre fa zapping distrattamente tra i canali della tv satellitare, assieme al computer l'unico segno di modernità nella sua abitazione a Mogadiscio. “Bisogna seguire alcune regole base, tra le quali non tornare mai a casa seguendo lo stesso percorso, per non dare punti di riferimento. E, quando si esce per lavorare, telefonare sempre per sapere se nel posto dove devi andare ci sono scontri, o se nel tragitto c'è qualche posto di blocco della polizia”. Guled lavora per la Reuters, e sta addestrando due nuovi reporter che lo sostituiscano nelle prossime settimane che trascorrerà in Kenya, in attesa che le acque si calmino.
Per i giornalisti stranieri inviati a Mogadiscio, la situazione è molto diversa: pagando 500 dollari al giorno, ci si garantisce un ottimo albergo, una macchina da affittare e una scorta armata. Il prezzo è molto alto, ma non trattabile. Non pagare significa andare incontro a una morte certa. Ma mentre per gli stranieri trascorrere una settimana a Mogadiscio per raccogliere storie è relativamente semplice e in parte elettrizzante, per i somali è tutta un'altra faccenda.

I giornalisti locali rischiano da 17 anni la vita per raccontare al mondo una guerra civile che ha devastato questa città, un tempo incantevole, facendo più di mezzo milione di morti e almeno un milione di sfollati. Costretti a non potersi fidare di nessuno, a limitare allo stretto necessario i propri spostamenti, a non fermarsi più di dieci minuti nello stesso posto per non dare nell'occhio, i reporter somali sacrificano la propria vita quotidiana sull'altare del lavoro. Solo nell'ultimo anno, Abukar è stato minacciato di morte da un miliziano che gli ha puntato una pistola alla tempia, accerchiato da una folla urlante che lo voleva linciare perché lo credeva una spia degli etiopi (che controllano la città dallo scorso dicembre), arrestato dagli agenti governativi che l'avevano attirato fuori di casa con un tranello, annunciandogli che il primo ministro voleva concedergli un'intervista.

Giornalisti somali a MogadiscioAlla fine del racconto, Sahal è provato. Gli ultimi giorni sono stati un inferno, tra telefonate dei familiari e dei colleghi, che si felicitavano per lo scampato pericolo, e le testate internazionali che l'hanno contattato per sentire la sua storia. “E' strano. Dopo vent'anni di carriera, una volta tanto sono io l'intervistato, la persona 'famosa'”, scherza, mentre sul viso gli si stampa un sorriso che solo un uomo che ha visto la morte in faccia può avere. Sahal ora andrà a Toronto, in Canada, per trovare la famiglia e riposarsi qualche mese. Nonostante i rischi, non mette neanche in conto di abbandonare per sempre Mogadiscio. “Non posso lasciare quella città baciata dal sole, quel mare blu, quel verde... E poi, se non ci prendiamo noi la briga di raccontare cosa succede là, chi lo farà?”. 

Matteo Fagotto

creditschi siamoscrivicicollaborasostienicipubblicità