Esattamente dieci anni fa, Boris Eltsin diede ordine all’armata federale russa
di invadere la repubblica cecena, dando inizio a una guerra che dura ancora oggi,
e che è costata la vita a duecentomila ceceni (in gran parte civili) e ad almeno
venticinquemila giovani soldati russi.
Visto dai Ceceni. “Ricordo quei giorni”, racconta Shakhman Akbulatov, ex infermiere, oggi direttore
della sede ingusceta dell’organizzazione di difesa dei diritti umani Memorial.
“La tensione era alta perché alla fine di novembre (il 26, ndr) l’opposizione unionista, con il sostegno militare russo, aveva tentato un golpe
contro il presidente Jokhar Dudayev, respinto dalle truppe cecene. Nessuno però
si aspettava una guerra. Tutti erano fiduciosi che le cose si sarebbero risolte
per via negoziale. Per questo nessuno si sognava di scappare da Grozny, perché
nessuno immaginava che di lì a pochi giorni la Russia avrebbe iniziato a sganciare
bombe sulla testa di migliaia di persone. Poi, l’11 dicembre, ho acceso la televisione
e ho sentito la notizia che Eltsin aveva ordinato un intervento militare contro
la Cecenia per “restaurare l’ordine costituzionale” e “distruggere i gruppi illegali”.
Non ci potevo credere. Pochi giorni dopo, mentre i russi avanzavano via terra, sono cominciati i bombardamenti aerei su Grozny.
Dopo aver portato al sicuro sui monti del sud mia moglie e i miei due bambini, sono tornato in città
per dare una mano come infermiere. Ce n’era un tremendo bisogno. I Russi, non riuscendo a entrare a Grozny, iniziarono a bombardarla a tappeto. Alla fine di gennaio si contavano almeno venticinquemila morti. La città era ridotta a un cumulo di macerie. Le strade e le case diroccate erano piene di cadaveri. Non avrei mai immaginato che oggi, dieci anni dopo, tutto questo sarebbe ancora andato avanti, con
la gente che continua a morire ogni giorno e che non può fare ritorno alle proprie
case. Adesso di figli ne ho quattro, e spero che almeno i più piccoli abbiano
un giorno la possibilità di vivere in pace nella loro terra d’origine. Prima o
poi questa guerra dovrà anche finire! Ma solo Allah sa quando”.
“Nessuno si aspettava un attacco russo”, ricorda Hussein Iskhanov, ex parlamentare
ceceno e collaboratore del leader indipendentista Aslan Maskhadov. “Per il 12
dicembre era stato fissato un incontro a Mozdok, in Ossezia del Nord. E invece
il giorno prima i russi hanno invaso la Cecenia, cancellando ogni possibilità
di dialogo.
Dopo il tentato golpe del 26 novembre Dudayev era pronto a trattare pur di evitare
un bagno di sangue”. “Dudayev non aveva mai detto che la Cecenia voleva la secessione dalla Russia”, afferma un professore dell’Università
Statale di Grozny, che vuol rimanere anonimo. “Voleva un maggior grado di indipendenza
per la repubblica cecena, ma nel quadro dello Stato russo. Se Eltsin non avesse ordinato l’intervento militare, le cose sarebbero andate molto
diversamente”.
Anche Satsita Israilova, che oggi ha trentanove anni, quell’11 dicembre fuggì
da Grozny. “Vi tornai due mesi dopo, quando mi dissero che i bombardamenti a tappeto erano cessati.
Fu tremendo. La mia città non c’era più. Solo macerie. La libreria e il teatro
dove andavo sempre io erano in rovina, così come tutti i palazzi del governo.
Laddove c’erano belle case e palazzi, c’erano grandi crateri di bombe e macerie.
Anche nel giardino di casa mia, che trovai crollata per metà, c’era un grosso
buco di bomba. Ovunque, per le strade, gruppi di soldati russi ubriachi. Loro
erano i nuovi padroni della mia città”.
Visto dai russi. Baffetti ben curati, divisa mimetica e un kalashnikov a tracolla. Il soldato
russo Alexej Rodiionov, ventotto anni, sorride nella foto che i suoi commilitoni
gli hanno fatto l’11 dicembre 1994, subito prima di partire alla conquista di
Grozny. E poco prima di morire in battaglia. Elena, sua moglie, guarda la foto
con le lacrime agli occhi nel suo piccolo appartamento di Mosca. “Quando Alexej
è morto in Cecenia – ricorda – mi ritenevo sfortunata perché pensavo che la guerra sarebbe finita poco dopo. Invece molte altre donne hanno continuato a perdere i loro mariti e i loro figli laggiù”, donne
cui Elena oggi offre supporto psicologico lavorando come volontaria per il Comitato
delle Madri dei Soldati Russi (Cmsr).
La presidente del Cmsr, Valentina Melnikova, ha dichiarato recentemente che dall’11
dicembre 1994 ad oggi sono almeno venticinquemila i giovani russi caduti in Cecenia.
Giovani di umili origini che provengono non tanto dalle grandi città, quanto dalla
sterminata provincia russa. Giovani sfruttati dallo Stato e poi abbandonati. “Il potere pubblico non si interessa minimamente dell’allevamento e della crescita
dei nostri figli”, denuncia Vitaly Bancharsky, vicepresidente di Rokada, associazione di reduci invalidi. “Quando però compiono diciott'anni, allora
lo Stato li agguanta per il collo e li spedisce al fronte a combattere. Quei tanti
che poi tornano invalidi ricevono dal governo una pensione di 55 euro al mese,
dopodiché per lo Stato è come se fossero morti. Nessuno si occupa dei problemi
psicologici e sociali dei reduci. La
Russia è piena di veterani della Cecenia che hanno imparato solo a uccidere e
che adesso, senza lavoro, non sanno cosa fare”.
“Molti di loro, almeno un quinto – secondo Vyacheslav Izmailov, ex ufficiale
veterano della Cecenia e oggi giornalista pacifista – una volta tornati in patria
mettono a frutto la loro esperienza entrando nella malavita e diventando killer”.
Altri continuano a prestare servizio come soldati nelle caserme russe, importandovi
il clima di violenza e di brutalità assimilato al fronte. “La dedovshchina, il nonnismo da caserma, è diventato un fenomeno terribile”, spiega Natalia
Zhukova, presidente del Comitato delle Madri dei Soldati Russi di Nizhnij Novogorod.
“Le giovani reclute non vengono semplicemente maltrattate come accade in altri
paesi. Da noi i giovani vengono picchiati, torturati e sottoposti a tutte le pratiche
in uso nelle caserme in Cecenia. Molti muoiono in segu ito ai maltrattamenti. Molti altri non reggono psicologicamente, e si suicidano.
Solo nella prima metà del 2004, 37 ragazzi sono morti per maltrattamenti e torture e 109 si sono
tolti la vita”.
Altri, che hanno servito in Cecenia per il ministero degli Interni, ora sono
poliziotti nelle strade delle città russe, dove hanno portato gli stessi metodi
che usavano in guerra. Gli immigrati caucasici vengono fermati senza motivo, picchiati
e torturati nelle caserme, violentate se si tratta di donne, a volte uccisi per
una minima infrazione, come non aver pagato il biglietto della metropolitana.
Altri ancora semplicemente si danno all’alcolismo. Come Sergej, che era in Cecenia
come tiratore scelto (cioè cecchino) dell’esercito federale, e che oggi vive sui
marciapiedi di Mosca, ubriaco dalla mattina alla sera. “Quanti Ceceni ho ucciso?
Tanti, troppi. Abbastanza per bruciare all’inferno per l’eternità”.