Decine le vittime civili dell’offensiva Usa a Herat, dove gli italiani sono sempre più a rischio
Fanno bene Prodi, D’Alema e Parisi a dirsi “preoccupati” per
la sicurezza delle truppe italiane schierate nella provincia occidentale di
Herat. La violenta offensiva aerea e terrestre scatenata nel fine settimana dalle
forze Usa di Enduring Freedom nel settore a comando italiano – iniziativa presa
senza nemmeno avvertire i comandi Isaf – ha fatto precipitare la situazione nella
regione dove operano i nostri militari, che ora si ritrovano in piena zona di
guerra. Con tutto ciò che questo comporta: l’attentato di ieri mattina contro
un nostro convoglio a Herat è un segnale chiaro. Le truppe italiane sono un
bersaglio ideale per gli attacchi di ritorsione delle forze talebane, che ora
–
grazie all’azione Usa – possono contare anche a Herat su una simpatia popolare
che fino a pochi giorni fa era impensabile.
Aumenta l’odio verso
le truppe straniere.
L’offensiva Usa scattata venerdì nel distretto di Shindand
– che ha visto i bombardieri strategici B-1 sganciare decine di bombe
Gbu-31 da
una tonnellata – ha infatti ucciso decine di civili, scatenando la
rabbia della
popolazione locale.
Mohammad Homayoun Azizi, presidente del consiglio
provinciale di Herat, ha dichiarato alla stampa che due consiglieri
recatisi in visita nelle zone bombardate hanno contato 51 civili
uccisi, tra cui 18 bambini e donne, che sono stati seppelliti in tre
diverse località della valle di Zerkoh. Dodici delle vittime, secondo
quanto riferito da Azizi, appartengono tutte alla famiglia di un tale
Jamal Mirzai.
Notizie che hanno infiammato gli animi della gente non solo
a Herat, ma anche nell’est del Paese, a Jalalabad, dove nei giorni scorsi ci
sono state altre vittime civili di raid Usa e dove i giovani studenti
universitari protestano ormai senza sosta da quattro giorni contro la presenza
delle truppe Usa con manifestazioni di piazza e blocchi stradali. Proteste ogni
giorno più massicce: oggi, dopo la notizia degli almeno 51 civili uccisi a
Herat, oltre mille studenti sono scesi per strada bruciando bandiere Usa e manichini
di Bush e
urlando “Morte a Bush”, Morte a Karzai”.
“Gli Americani devono lasciare l’Afghanistan perché non ci rispettano”,
ha detto un giovane. “Perché Bush e Karzai non rispondono degli innocenti
uccisi dai soldati americani?”, chiedeva un suo collega. “Hanno invaso il
nostro paese, diventandone padroni e facendo di noi i loro servi”, ha detto un
altro studente.
Decine di morti nella
battaglia di Sangin. Nel frattempo, nel sud dell’Afghanistan, prosegue
l’operazione ‘Achille’, l’offensiva Nato nella provincia di Helmand. Il fronte
dei combattimenti negli ultimi giorni è stata la Valle di Sangin, 70 chilometri
a nord di Lashkargah. Lunedì, centinaia di truppe aviotrasportate britanniche
e
danesi, assieme a quelle afgane, hanno ucciso almeno 75 “presunti militanti” nel
corso di una battaglia durata dall’alba al tramonto, combattuta tra i campi di
papaveri da oppio e le case di fango che punteggiano la vallata. L’offensiva
era volta a eliminare le forze talebane che all’inizio di aprile si erano sparse
per la campagna dopo aver lasciato,
su
richiesta dei capi tribù locali, il capoluogo Sangin, ridotto in macerie
dai bombardamenti aerei della Nato. Centinaia di famiglie, scappate dalla
guerra nelle scorse settimane, stanno ora facendo ritorno alle loro case: molti
troveranno però solo delle rovine presidiate dai soldati Nato. Molti tornano
per seppellire i loro familiari. “Molti dei morti di lunedì – ha dichiarato
alla stampa il maggiore britannico Dominic Biddick – erano gente del posto e la
loro morte rischia di suscitare l’ostilità della popolazione locale verso le
nostre truppe”. E, poteva aggiungere, la simpatia verso la guerriglia talebana.