07/04/2005versione stampabilestampainvia paginainvia



Un'associazione si batte contro la diffusione della droga tra i Palestinesi
dal nostro inviato
Christian Elia
 
 
“Ero un uomo d'affari, avevo successo e denaro. Lavoravo in Germania, ma ero caduto nel tunnel della droga. Quando, con molta fatica, ne sono uscito, ho ritenuto fondamentale rendermi utile mettendo la mia esperienza a disposizione. Solo che mancavano gli operatori. Quando, nel 2003, è nata l'associazione con il supporto della fondazione Faisal Husseini mi hanno detto che ero l'uomo giusto: avevo competenza di amministrazione e di tossicodipendenza...chi meglio di me poteva guidare il Naji?”.
 
shain hussuei - foto di c.eliaUna storia personale. A parlare è Shain Hussuei, un uomo grande e grosso. Nero di pelle e con lo sguardo un po’ malinconico di chi ha navigato attraverso la vita, vedendone le luci e le ombre. Sembra un vecchio pugile, incastrato in una scrivania che pare contenerlo a fatica. L'ufficio dove ci riceve è la sede dell'associazione Naji, un'organizzazione non governativa palestinese che si occupa di tossicodipendenti a Gerusalemme. Detto così sembra una cosa normale, visto e considerato il numero di operatori sociali che siamo abituati a vedere in giro per le città del cosiddetto nord del mondo. Ma qui il lavoro del Naji vale doppio, viste e considerate le difficoltà tra le quali si trova ad agire. “Il nostro lavoro”, racconta Shain, “consiste non solo nel riuscire a individuare i casi di tossicodipendenza e nel dare supporto a queste persone nel tentativo di disintossicarsi, ma anche e soprattutto nel lavorare sul futuro: il reinserimento sociale degli ex-tossici. Combattere un problema sociale devastante come la droga, in un mondo dove molto forti sono i tabù socio-culturali, è molto difficile. Sia per quanto riguarda il passaggio necessario della presa di coscienza del tossicodipendente, sia per quanto riguarda il reinserimento in una società che guarda al tossico come un reietto”. Shain è un fiume in piena. Snocciola dati e analisi con una foga tale da tradire l’assoluto coinvolgimento personale con il suo lavoro. “Io avevo perso completamente la fiducia in me stesso – racconta Shain – e per questo ritengo che la parte più importante del lavoro che facciamo con le persone delle quali ci prendiamo cura, è proprio il recupero dell’auto-stima”. In questo è fondamentale l’aiuto dell’ARCI italiana e si spera in futuro anche di altre associazioni internazionali, ma per ora si va avanti con l’entusiasmo e la determinazione di Shain.
 
un poster del naji - foto di c.eliaUn impegno quotidiano. “Gerusalemme ha la più alta concentrazione mondiale di persone che hanno avuto o hanno problemi di dipendenza da cocaina ed eroina”, racconta Shain, “ovviamente il dato è riferito alla popolazione araba, dove tra tossici ed ex-tossici arriviamo a contare 15mila casi. La situazione tende a peggiorare e l’età del primo buco o della prima sniffata si è abbassata notevolmente: nel 2001 l’età media era 18 anni mentre nel 2004 è stata di soli 10 anni. Questa accelerazione è drammatica e nessuno fa nulla per fermarla”. L’ufficio del Naji ha poco della tradizionale sede istituzionale. Alle spalle di Shain si apre e si chiude in continuazione una porta che si affaccia direttamente sulla casa della sua famiglia. Questa vicinanza sembra quasi voler sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalle persone che ti vogliono bene in un cammino di recupero e di rinascita. “La famiglia ha un ruolo chiave nella società palestinese”, racconta il direttore del Naji mentre sua moglie serve un ottimo thé alla menta, “anche perché è proprio il nucleo familiare a pagare il prezzo più alto alla droga. Sono tanti, troppi, i casi che ho affrontato dove la dipendenza del marito ha, alla lunga, coinvolto la moglie e, in casi sporadici per fortuna, anche i figli. Come un effetto domino terribile. Bisogna capire che per la cultura palestinese l’uomo, il padre, il marito sono i punti di riferimento della società e della famiglia. Oggi i dati che abbiamo parlano solo di 50 casi di tossicodipendenza femminile, ma temiamo che il dato sia molto parziale, dovuto a rigidità culturali difficili da sconfiggere. Un uomo che sprofonda nella dipendenza dalla droga è capace di tutto. Arriva a costringere i suoi familiari a vendere ogni cosa per procurarsi le droghe, a diventare loro stessi piccoli spacciatori e, nei casi più gravi, a vendere loro stessi per denaro. Noi, quando riusciamo a fare accettare il nostro intervento, cerchiamo di separare figli e genitori e coniugi fino a quando non si ottengono dei risultati, ma le resistenze sociali sono molte. Un elemento del quale si parla poco è che molti dei kamikaze degli anni più duri della Seconda Intifada erano reclutati tra i tossicodipendenti. Il nostro lavoro è quello di ridare alla vita dei drogati un senso e una dignità, prima che sia troppo tardi”.
 
la sede del naji - foto di c.eliaUno Stato assente. In molti paesi del mondo, quando si parla di lotta alla droga, le accuse della stampa e degli opinionisti si concentrano sulle politiche governative. Questo è un aspetto particolare del problema della droga in Palestina, perché la Palestina un governo non lo ha. Shain si occupa di Gerusalemme e quindi non ha dati sul resto della Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza. Il suo giudizio, anche se solo relativamente a Gerusalemme, è molto duro. “Qui non si tratta di avere o no un governo”, dice Shain, “questo è un problema politico. La responsabilità però è comunque dello stato israeliano, perché qualunque Paese occupante è tenuto a garantire dei servizi di assistenza e, a Gerusalemme, il problema è ancora più grave perché questa gente è sotto il diretto controllo del governo di Tel Aviv”. Il giudizio del direttore del Naji è drastico e sottolinea che “nessun aspetto del nostro lavoro è sostenuto dalle politiche governative. Noi ci battiamo per convincere i tossici a tirar fuori il loro problema, ma il governo ha creato dei centri solo per i cittadini che hanno la carta d’identità di Gerusalemme. Questo taglia fuori dalle politiche di sostegno psicologico migliaia di palestinesi. Noi cerchiamo di arrivare alla vittoria contro la dipendenza, ma i militari israeliani non fanno nulla per contrastare il commercio di droga. Basta fare un giro per la città per rendersi conto che i militari sono solerti ad arrestare un padre di famiglia che non ha i documenti in regola o un bambino che lancia un sasso, ma non fanno nulla per arginare il traffico di stupefacenti. In questo senso c’è un’indifferenza criminale, quasi sospetta. Come se la tossicodipendenza dilagante fungesse da inibitore sociale. Meglio un branco di persone intontite dalle droghe che un gruppo di cittadini che protesta in piazza per i propri diritti. Per finire, non ci aiutano minimamente nell’ultima parte del nostro programma: il recupero dell’autostima attraverso la dignità del lavoro. Quasi tutti i Palestinesi in età da lavoro sono disoccupati e nessuna politica governativa in questo senso viene approntata”. Un quadro duro, che sta conoscendo peraltro un’accelerazione furiosa negli ultimi anni per quantità e qualità, visto il rapido diffondersi di nuove droghe. Un problema è rimasto sul fondo della discussione: il contagio dell’HIV. Shain ci accompagna verso l’uscita con un sorriso amaro. “I problemi sono tanti e dati sull’AIDS non ne abbiamo”, risponde il direttore, “qui è un problema opporsi al capofamiglia, figurarsi avere dei dati certi su un argomento del genere. Arriveremo anche a questo, anche da soli”. Sarà perché Shain è uno che ce l’ha fatta, sarà perché è troppo grosso per dargli torto, ma si finisce quasi per credergli.

Christian Elia

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