“Ero un uomo d'affari, avevo successo e denaro. Lavoravo in
Germania, ma ero caduto nel tunnel della droga. Quando, con molta fatica, ne
sono uscito, ho ritenuto fondamentale rendermi utile mettendo la mia esperienza
a disposizione. Solo che mancavano gli operatori. Quando, nel 2003, è nata
l'associazione con il supporto della fondazione Faisal Husseini mi hanno detto
che ero l'uomo giusto: avevo competenza di amministrazione e di
tossicodipendenza...chi meglio di me poteva guidare il Naji?”.
Una storia personale.
A parlare è Shain Hussuei, un uomo grande e grosso. Nero di pelle e con lo
sguardo un po’ malinconico di chi ha navigato attraverso la vita, vedendone le
luci e le ombre. Sembra un vecchio pugile, incastrato in una scrivania che pare
contenerlo a fatica. L'ufficio dove ci riceve è la sede dell'associazione
Naji, un'organizzazione non governativa
palestinese che si occupa di tossicodipendenti a Gerusalemme. Detto così sembra
una cosa normale, visto e considerato il numero di operatori sociali che siamo
abituati a vedere in giro per le città del cosiddetto nord del mondo. Ma qui il
lavoro del
Naji vale doppio, viste e
considerate le difficoltà tra le quali si trova ad agire. “Il nostro lavoro”,
racconta Shain, “consiste non solo nel riuscire a individuare i casi di
tossicodipendenza e nel dare supporto a queste persone nel tentativo di
disintossicarsi, ma anche e soprattutto nel lavorare sul futuro: il
reinserimento sociale degli ex-tossici. Combattere un problema sociale
devastante come la droga, in un mondo dove molto forti sono i tabù
socio-culturali, è molto difficile. Sia per quanto riguarda il passaggio
necessario della presa di coscienza del tossicodipendente, sia per quanto
riguarda il reinserimento in una società che guarda al tossico come un reietto”.
Shain è un fiume in piena. Snocciola dati e analisi con una foga tale da
tradire l’assoluto coinvolgimento personale con il suo lavoro. “Io avevo perso
completamente la fiducia in me stesso – racconta Shain – e per questo ritengo
che la parte più importante del lavoro che facciamo con le persone delle quali
ci prendiamo cura, è proprio il recupero dell’auto-stima”. In questo è
fondamentale l’aiuto dell’ARCI italiana e si spera in futuro anche di altre
associazioni internazionali, ma per ora si va avanti con l’entusiasmo e la
determinazione di Shain.
Un impegno
quotidiano. “Gerusalemme ha la più alta concentrazione mondiale di persone
che hanno avuto o hanno problemi di dipendenza da cocaina ed eroina”, racconta
Shain, “ovviamente il dato è riferito alla popolazione araba, dove tra tossici
ed ex-tossici arriviamo a contare 15mila casi. La situazione tende a peggiorare
e l’età del primo buco o della prima sniffata si è abbassata notevolmente: nel
2001 l’età media era 18 anni mentre nel 2004 è stata di soli 10 anni. Questa
accelerazione è drammatica e nessuno fa nulla per fermarla”. L’ufficio del
Naji ha poco della tradizionale sede
istituzionale. Alle spalle di Shain si apre e si chiude in continuazione una
porta che si affaccia direttamente sulla casa della sua famiglia. Questa
vicinanza sembra quasi voler sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalle
persone che ti vogliono bene in un cammino di recupero e di rinascita. “La
famiglia ha un ruolo chiave nella società palestinese”, racconta il direttore
del
Naji mentre sua moglie serve un
ottimo thé alla menta, “anche perché è proprio il nucleo familiare a pagare il
prezzo più alto alla droga. Sono tanti, troppi, i casi che ho affrontato dove
la dipendenza del marito ha, alla lunga, coinvolto la moglie e, in casi
sporadici per fortuna, anche i figli. Come un effetto domino terribile. Bisogna
capire che per la cultura palestinese l’uomo, il padre, il marito sono i punti
di riferimento della società e della famiglia. Oggi i dati che abbiamo parlano
solo di 50 casi di tossicodipendenza femminile, ma temiamo che il dato sia
molto parziale, dovuto a rigidità culturali difficili da sconfiggere. Un uomo
che sprofonda nella dipendenza dalla droga è capace di tutto. Arriva a
costringere i suoi familiari a vendere ogni cosa per procurarsi le droghe, a
diventare loro stessi piccoli spacciatori e, nei casi più gravi, a vendere loro
stessi per denaro. Noi, quando riusciamo a fare accettare il nostro intervento,
cerchiamo di separare figli e genitori e coniugi fino a quando non si ottengono
dei risultati, ma le resistenze sociali sono molte. Un elemento del quale si
parla poco è che molti dei kamikaze degli anni più duri della Seconda Intifada
erano reclutati tra i tossicodipendenti. Il nostro lavoro è quello di ridare alla
vita dei drogati un senso e una dignità, prima che sia troppo tardi”.
Uno Stato assente. In
molti paesi del mondo, quando si parla di lotta alla droga, le accuse della
stampa e degli opinionisti si concentrano sulle politiche governative. Questo
è
un aspetto particolare del problema della droga in Palestina, perché la
Palestina un governo non lo ha. Shain si occupa di Gerusalemme e quindi non ha
dati sul resto della Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza. Il suo giudizio,
anche se solo relativamente a Gerusalemme, è molto duro. “Qui non si tratta di
avere o no un governo”, dice Shain, “questo è un problema politico. La
responsabilità però è comunque dello stato israeliano, perché qualunque Paese
occupante è tenuto a garantire dei servizi di assistenza e, a Gerusalemme, il
problema è ancora più grave perché questa gente è sotto il diretto controllo
del governo di Tel Aviv”. Il giudizio del direttore del
Naji è drastico e sottolinea che “nessun aspetto del nostro lavoro
è sostenuto dalle politiche governative. Noi ci battiamo per convincere i
tossici a tirar fuori il loro problema, ma il governo ha creato dei centri solo
per i cittadini che hanno la carta d’identità di Gerusalemme. Questo taglia
fuori dalle politiche di sostegno psicologico migliaia di palestinesi. Noi
cerchiamo di arrivare alla vittoria contro la dipendenza, ma i militari
israeliani non fanno nulla per contrastare il commercio di droga. Basta fare un
giro per la città per rendersi conto che i militari sono solerti ad arrestare
un padre di famiglia che non ha i documenti in regola o un bambino che lancia
un sasso, ma non fanno nulla per arginare il traffico di stupefacenti. In
questo senso c’è un’indifferenza criminale, quasi sospetta. Come se la
tossicodipendenza dilagante fungesse da inibitore sociale. Meglio un branco di
persone intontite dalle droghe che un gruppo di cittadini che protesta in
piazza per i propri diritti. Per finire, non ci aiutano minimamente nell’ultima
parte del nostro programma: il recupero dell’autostima attraverso la dignità
del lavoro. Quasi tutti i Palestinesi in età da lavoro sono disoccupati e
nessuna politica governativa in questo senso viene approntata”. Un quadro duro,
che sta conoscendo peraltro un’accelerazione furiosa negli ultimi anni per
quantità e qualità, visto il rapido diffondersi di nuove droghe. Un problema è
rimasto sul fondo della discussione: il contagio dell’HIV. Shain ci accompagna
verso l’uscita con un sorriso amaro. “I problemi sono tanti e dati sull’AIDS
non ne abbiamo”, risponde il direttore, “qui è un problema opporsi al
capofamiglia, figurarsi avere dei dati certi su un argomento del genere.
Arriveremo anche a questo, anche da soli”. Sarà perché Shain è uno che ce l’ha
fatta, sarà perché è troppo grosso per dargli torto, ma si finisce quasi per
credergli.