Scritto per noi da
Francesca Coradeschi*

“Ho sempre visto guerra in questi anni e non sono sicura che la pace tornerà
qui in Afghanistan”. Yaffa Begum ha forse 60 anni, tratti scavati dal sole e incredibili
occhi chiari. Diventa ancora più piccola mentre si sistema il velo bianco intorno
al viso e racconta: “Siamo scappati sulle montagne la prima volta quando i carri
armati sovietici sono arrivati all’imboccatura della valle del Panshir.
Abbiamo camminato per ore, noi donne con i bambini. Non avevamo nulla per illuminare
la strada e niente da mangiare. Per tre giorni siamo rimaste nascoste prima di
tornare al villaggio. Quando, anni dopo, sono arrivati i talebani, sono scappata
ancora, in Tagikistan e lì sono rimasta per sei anni aspettando di poter ritornare”.
Yaffa Begum vive oggi nella valle del Panshir, ad Anabah ed è qui che nei primi
anni della sua vita, ha conosciuto un Afghanistan povero, ma ancora in pace. Ricorda
la sua casa, il fiume, il lavoro nei campi. Sorride mentre racconta. Poi si fa
seria e dice “non credo che quel mondo tornerà più”.
Memorie di guerra. Gli anni della guerra contro i telebani hanno portato migliaia di sfollati fra
le montagne di questa valle, unica enclave ancora sicura. Dalle province vicine,
Charikar, Kapisa, Bagram, donne e bambini si sono messi in cammino mentre gli
uomini andavano a combattere a fianco dei mujaheddin. “Ricordo che per ventiquattro
ore siamo saliti a piedi verso Anabah, la strada fra la montagna e il fiume era
strettissima e buia: di notte qualcuno è caduto in acqua e non abbiamo potuto
far nulla… Io in mezzo alla confusione ho perso mia madre e per tre giorni ho
continuato a cercarla”.
Tajan, vent’anni, interviene nel racconto di Yaffa Begum perché lei in quegli
anni in Afghanistan c’era e ricorda perfettamente la fuga tra i bombardamenti
e gli accampamenti di tende lungo il fiume una volta arrivati nella valle. Ricorda
i bambini morti per la fame e per il freddo e i feriti distesi lungo la strada
perché non c’era altro posto in cui portarli.
“La guerra non è mai finita”. “In Afghanistan la guerra non è mai finita”, dice Tajan. “Non è con le bombe
che si porterà mai pace in questo paese. La situazione oggi non è molto diversa
da qualche anno fa: le mine, le malattie, la fame… Questi sono i problemi che
sarebbe necessario risolvere ma nessuno qui ha ancora fatto nulla”.
Yaffa Begum e Tajan, che lavorano entrambe nell’ospedale che Emergency ha costruito
ad Anabah nel 1999, fanno della situazione sanitaria della zona un quadro desolante.
Farmaci, acqua potabile, vaccinazioni, tutto ciò che in occidente è considerato
normale resta tuttora inaccessibile al popolo afgano. “Qui si muore di parto o
per banali malattie infettive perché non sempre le lunghe ore di tragitto su strade
dissestate e disseminate di mine antiuomo permettono di arrivare all’ospedale
per tempo”, spiega Yaffa Begum con tono pacato.
Poi indica una piccola foto di Ahmad Shah Massud, leader della resistenza antitalebana
ucciso in un attentato il 9 settembre del 2001.
Il ricordo di Massud. Lei Massud lo ha conosciuto bene e lo ricorda con l’affetto di una madre. “Ho
passato anni nella sua casa, tenevo in ordine e facevo da mangiare. Se era di
buon umore scherzava con me, mi prendeva in giro perché mi preoccupavo per lui
che non dormiva mai. Quando durante la guerra ha deciso di portare la sua famiglia
in Tagikistan in una piccola casa in affitto io non avevo nessuno, nè marito nè
figli e così sono partita con loro”.
La morte di Massud ha lasciato un segno indelebile nella memoria della gente
di questo paese e il racconto di come sia stata accolta la notizia ha un che di
leggendario: “Piangevano i campi, il cielo, anche gli alberi e il fiume hanno
pianto Massud. Per molti giorni ci siamo riuniti a ricordarlo ognuno raccontando
le storie e gli aneddoti che conosceva sulla sua vita. E’ vero: Massud ha sempre
combattuto, ma per difendere il suo popolo, per dargli finalmente un po’ di pace”,
dice Yaffa Begum e gli occhi chiari, per un momento, tornano a sorridere.